In diretta dall'Asia

Coincidenze, discordanze

Di che pasta è fatta questa città? Di continuo incontro persone che conosco, in libreria, in un bar, al ristorante, persino al supermercato. Segno di cosa?
In serie: la mia prima visita al Bookworm, – già scritto – libreria/caffè ben nota per il suo festival, ecco Lijia Zhang, con la figlia. Un breve saluto, ma è lei che mi trova l’agente giusta e ora ho il mio bilocale proprio dove lo volevo. Poche sere dopo, in un bar, a meno di tre ore da una telefonata nella quale gli ho chiesto un appuntamento, ecco Eric Abrahamsen, traduttore, motore di Paper Republic: ci guardiamo in tralice, perché l’ultimo incontro era di parecchi anni fa: sì sono io. Fantastico vederti qui, allora ci vediamo domenica a pranzo. Lijia mi telefona, mi invita al ristorante con una tycoon neozelandese, Donelle, nella cui casa antica si svolge ogni mese un full moon festival: si cena nella corte, a lume di candela: magari stavolta inviterà anche me: ed è così, sarà per domenica sera allora.

Al ristorante, intanto, bellissima chiacchierata – vien da dire: maschile, come quelle di una volta a vino e sigarette, qui senza sigarette. Ci siam seduti a tavola alle otto, ci cacciano dal ristorante perché è quasi mezzanotte. Letteratura (cinese e non), politica (cinese e non) rivolte operaie (cinesi), e un sacco di gossip che non riesco sempre a seguire: neozelandese stretto, troppo stretto, ma rido lo stesso: in sostanza si enumerano i precedenti mariti di Donelle, e la si ascolta dare un giudizio sul maschio cinese: mediocre, pare. Entra al ristorante una persona che Lijia mi presenta: Benjamin, giornalista. Please to meet you. Andrea: strano, fa lui, di solito solo noi italiani usiamo Andrea come nome maschile, nelle altre lingue è femmina. Quindi Beniamino, esclamo io nel nostro idioma. Ah, fa lui: ma Andrea e poi? E poi Berrini. Ma allora sei tu che mi hai chiamato al telefono, tre ore fa! Che dire? Sì, volevo incontrare Beniamino Natale, personaggio leggendario, corrispondente Ansa da Pechino, dieci anni di Cina dopo dieci anni di India: qualche dritta sugli scrittori cinesi me la darà senz’altro: bene allora ci vediamo lunedì, come d’accordo.


Che coincidenza eh? Poi questa mattina … al supermercato! Ancora Eric: ma allora abitiamo vicini, e allora domani pranziamo in zona, sì.
Insomma Pechino, grande capitale del paese più grande del mondo, e pare un villaggio. Vero, che sto a Chaoyang: il Business District, le ambasciate, locali e ristoranti a non finire, il nuovo Village dove tra architetture lugubremente scintillanti e colorate si vendono i vestiti dei sarti internazionali, nomi e cognomi d’Italia ovunque. Ma non basta come spiegazione, non può bastare.

Ho vissuto due lunghi inverni a Bombay, molti mesi. Certo Bombay è terribile: lunga un’ottantina di chilometri, una penisola con praticamente una sola grande highway perennemente intasata. Io stavo a sud, nella mitica Colaba, bellissima e fatiscente di ricordi coloniali: ma incontrarsi: un dramma. Forse la prossima settimana vengo giù giovedì, approfittiamone per vederci. Annie Zaidi presenta una piece teatrale a Juhu: tre ore solo per arrivarci su taxi impresentabili.
E poi Singapore: grande come un villaggio, in mezzora di metrò da una parte all’altra: ho mai incontrato qualcuno per strada? Certo, alle presentazioni, alle feste, ai cocktail.

D’accordo, vivo a Sanlitun, il quartiere internazionale: ma è disperso in un raggio di dieci chilometri, dal Business District al 798 degli artisti son venticinque minuti in taxi!
Una possibile spiegazione, obliqua è la seguente: quando mi vedo con Lijia, e ci avviamo verso il ristorante a incontrare l’amica neozelandese, ci rendiamo conto di questo: che io e Lijia, manco per un caffè ci siamo mai seduti insieme. Ci siamo incontrati a Jaipur, festival letterario forse quattro anni fa. E poi? Poi via mail, via Skype, via gmail chat. Perché questa è città vera, capitale del mondo. Questo è il fatto.

PS: Ma sarà tutto da dimostrare. Ho sotto mano indirizzi, numeri di telefono di alcuni scrittori giovani che incontrerò. Con l’interprete. Spero non siano due mondi separati: quello in cui si parla inglese, quello in cui non lo si parla. Perché si scrive. Nella propria lingua.
PPS: Lijia, ma tu perché hai scelto di scrivere il tuo memoir in inglese – d’accordo, era scappata negli anni novanta, viveva a Londra, la lingua ce l’ha. Donelle: geniale, così sei arrivata a un pubblico internazionale! Io: ma non l’hai mai tradotto in cinese? Lijia: no, non mi è sembrato necessario. (Insomma, facile Pechino: ma ci sarà una barriera, da superare, una frontiera. Dovrò scendere in profondità, con un interprete al fianco, pronto a liberarmene, a ingiungergli di farsi da parte, inventandomi una comunicazione altra. Chissà come. Gran capitale, Pechino. Una bella sfida.)
PPPS: Due settimane fa, scrivevo a un amico italiano in India. Vado a Pechino sai? E lui mi fa: negli ultimi tre giorni sei la quarta persona alla quale sento dire: vado a Pechino. Venghino siori, venghino. Lo spettacolo sta per cominciare.


Categoria: Cina | India | Singapore



Leave a Reply