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Il limite

Il mio limite sarà la non conoscenza della lingua: il cinese, in un paese dove molti non parlano / parlano male e stentatamente / si rifiutano di imparare l’inglese. Ma del resto, facendo il mio scouting e percorrendo un po’ tutto il continente in questi anni, mi sono ritrovato spesso a non conoscere il coreano come il malese, l’indonesiano o il bengalese, o il marathi o il thai. Affronterò, è inevitabile, un rischio di approssimazione negli incontri, nelle interviste con gli autori, gli editori, i giornalisti. E’ vero che già molti hanno scritto della Cina – nei libri, sui giornali – senza conoscere minimamente il cinese: ma non posso non ricordare la fatica delle mie lunghe chiacchierate mediate da un interprete, i tempi della domanda e risposta che cambiano, si dilatano, la mancanza di immediatezza, di quelle belle discussioni a frasi brevi e dandosi sulla voce l’un l’altro, con un senso di urgenza (intesa qui come pura e semplice fretta: fretta di dire, di non lasciar passare intatto dentro alla frase dell’altro un dettaglio che ci pare più importante del tema principale).
L’ultimo è stato A Yi, il quarantenne visto anche in aprile alla Fiera di Londra. A Pechino, nella hall di un grande albergo, davanti a delicate tazzine di tè: qui corro il rischio di ricordarmi più della traduttrice – carina, d’accordo – che di lui: perché la giovane donna mi parlò di Han Han, di come lei sia venuta su, da ragazzina, coi suoi primi romanzi nei quali tanto bene si riconosceva: io, mi ha detto, in questi dieci anni sono cresciuta come lettrice, lui non è cresciuto come scrittore. A Yi mi aveva raccontato la propria storia: quella di un poliziotto (oggi ex), che si trova in difficoltà con i colleghi perché un giorno rifiuta di partecipare a una piccola estorsione, a quei soliti episodi di marciume tipici delle polizie di ogni mondo e figuriamoci di questo.

Mobbizzato – come si dice ai giorni nostri – esiliato in un sottoscala, correndo rischi anche sul suo corpo davanti a torme di colleghi violenti e sicuri di sé nella loro corruzione , morale e esistenziale. Aveva provato a raccontare la sua storia su una piccola rivista, aveva capito quanto piacevole può essere utilizzare la scrittura non come forma di autoaffermazione, o di denuncia, ma di puro e semplice scarico (nel senso del downloading) dei propri pensieri e delle inevitabili ossessioni. Ripulire un proprio testo dopo la prima stesura è ripulire la propria mente, mi ha detto. E così è cominciata la sua nuova vita.

A Yi è stato editor dei primi numeri di Chutzpah, la miglior rivista letteraria di Pechino, ha speso mesi andando in caccia di scrittori della sua generazione (questa è la mission Chutzpah), e si è stupito della giustezza della scelta compiuta: dare le dimissioni dalla polizia e diventare scrittore a tutto tondo, con un libro di racconti premiato, e ben recensito. Dice: ne ho viste tante, facendo il poliziotto, e tante ne racconto. Mi parla con convinzione, gesticola un po’, quasi all’italiana, per dare peso alle argomentazioni, ma soprattutto alla sua genuina voglia di raccontare – e ovviamente alla voglia di farsi tradurre e pubblicare in altre lingue dall’editore italiano che si trova davanti. E’ affascinato dal nuovo incarico, che lo ha costretto a dare le dimissioni da Chutzpah: è diventato direttore di collana presso Xiron, la casa editrice del poeta Shen Hao Bo (meglio: la casa editrice di cui Shen Hao Bo è Editor in Chief, e la cui proprietà rimane un po’ misteriosa, come sempre nell’editoria cinese), che gli ha affidato l’incarico di scoprire nuovi talenti: e sempre nella generazione dei quarantenni.

Per Shen Hao Bo è una novità, la possibilita’ di far partire una collana più letteraria: mi aveva raccontato lui stesso la frustrazione di essere costretto a pubblicare narrativa commerciale, la richiesta della sua proprietà di fare tanti bei soldini, e di conquistare spazio in fretta sugli scaffali. Shen Hao Bo, anche lui tramite un interprete, mi beneficiava di un complimento: ti invidio, mi diceva, tu puoi pubblicare autori che ti piacciono, io pubblico solo robaccia. Non era del tutto vero, naturalmente, ma anche qui intuivo un’emozione genuina: lui, compassato, con le sue frasi lunghe e meditate, nascosto dietro a un paio di occhiali spessi e a una corporatura da bulldog, così diverso dal più giovane A Yi, capelli lunghi e nevrosi a fior di pelle. Le case editrici indipendenti vivono sempre sotto la tutela dei grandi gruppi di stato, in Cina. Non si sa mai bene da dove provengano i capitali investiti, di quali protezioni si goda: Shen Hao Bo sorrideva e rispondeva pacato: sì abbiamo un po’ di censura in Cina, eppure si può fare. Io poi mi sono confrontato con altri che lo hanno incontrato, cinesi e non: tutti mi confermano questa impressione della sua ricerca di un legame in qualche modo affettivo con l’interlocutore, emozionale: poetico, forse? Eppure lascia chiaramente trasparire il suo status da manager editoriale, lo intuisco duro e capace di imporre decisioni anche sgradevoli.
Insomma: non male, considerando il limite: che io, purtroppo, il cinese non lo parlo.


Categoria: Cina



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