In diretta dall'Asia

A Yi: un inizio

(Questo post, in una versione leggermente differente, è apparso su www.doppiozero.com il 13 novembre 2012)

Eccolo, A Yi: ci guardiamo negli occhi. Seduti al tavolo uno di fronte all’altro, l’interprete riesce a metterci in contatto senza imporre la sua presenza, traduce frasi brevi se han bisogno di essere brevi, lunghe se son lunghe, Insomma siamo io e lui e c’è nel suo sguardo qualcosa di un Thomas Millian (occhi a mandorla…): altro che timido.

Ma la memoria mi prende la mano: inganna.  Mi tiene fermo su quel solo sguardo, un momento solo. Perché con quello sguardo io e A Yi siamo diventati amici. Parola grossa? Diciamo che ci siamo intesi.

No, è arrivato timido, il mio scrittore di trentasei anni: come l’avevo visto in quella libreria sabato scorso, un incontro di sfuggita, casuale.  E’ arrivato disponibile, contento, quasi sottomesso. E qui ha cominciato a giocare, con me, come io ho cominciato a giocare con lui.

In sostanza: io di lui già sapevo, e avevo anche cominciato a formarmi un’idea. Speravo di tirargli fuori delle verità su di sé. Perché scrive quello che scrive, come ha cominciato a voler scrivere quello che io – in piccola parte – ho letto: racconti cupi,  un omicidio commesso senza una ragione e un rimorso lungo un centinaio di pagine, un rimorso involuto, che si sovrappone alla realtà del protagonista e la distorce. O quel racconto senza scampo, un eterno perdente (ma al gioco degli scacchi!), il figlio di un uomo malato che ha bisogno di una grossa cifra per operare il padre, un morto ammazzato, poliziotti che infieriscono sull’uomo sbagliato, o forse era quello giusto, per strappargli una confessione. Alla fine chi si pente sono i poliziotti, l’assassino è libero, il padre malato è morto, il figlio è condannato a morte: e l’assassinato non può più giocare a scacchi.

A Yi l’ho già incontrato un due anni fa (il ricordo di quell’incontro è confuso, per me e per lui: mi scrive il nome dell’editore che a suo dire ci avrebbe messo in contatto: io non lo conosco). Ma ricordo, e successivamente ho letto: che A Yi era poliziotto, e che si è licenziato dal corpo di polizia. Ricordo, e mi hanno detto, che lui riteneva ‘noioso’ quel lavoro: non far niente tutto il giorno, giocare a carte, o restare seduto davanti a una porta per ore. Ricordo (e quando ho riferito questo ricordo a altri mi han detto che no, loro non la sapevano così), che c’era comunque un episodio oscuro, mobbing da parte dei colleghi, rifiuto a partecipare a un fattaccio, un piccolo trauma. Tra il trauma e la noia ce ne corre. Ma certo, non è detto che uno scrittore abbia voglia di raccontarsi così, apertamente, al primo che arriva dall’Italia.

Insomma mi preparo a scavare, o meglio a scavalcare la sua verità di maniera, il racconto di sé buono per gli editori, per la stampa, vediamo se c’è altro.

Lui dunque comincia il suo resoconto come se niente fosse: la noia, in polizia. Qualcosa vien fuori, di sguincio: chiedo subito: era successo qualcosa, un fatto grave? La risposta: il fatto grave è che la sua famiglia critica ferocemente la decisione di licenziarsi: aveva ventidue anni, praticamente scappa dal suo paese, e va a fare il giornalista sportivo – aveva sempre pensato, fin da bambino, di voler scrivere. (E si tiene su un registro basso, tipo: la vita è poca cosa, niente ha grande importanza, un lavoro vale l’altro, ma al paese d’origine mi sembra di capire che ci è tornato poco – me lo appunto: la famiglia). Dopo la noia, l’inutilità, le giornate vuote, la sensazione di non saper fare niente e di non avere grande autorità, ecco il giornale di Canton che lo assume subito: A Yi continua a volare basso: mi hanno detto: ti assumiamo perché sei l’unico che ha risposto all’annuncio. E ricomincia l’esercizio di autodenigrazione: perché a lui il calcio non interessa, non sa giocare, quindi cosa può riferire? Poi però, con gli anni – dieci!- passando di testata in testata, di città in città Pechino compresa, si scava una nicchia: lavoravo pochissimo, avevo sempre la mia rubrica, poche righe, ripetevo sempre le stesse cose.

Hmm. Qui la mia sensazione che dietro l’abbandono della polizia ci fosse altro, fa il paio con le notizie che ho raccolto di recente: e che non mi confermano le sue parole. Mi ha detto chi già lo ha intervistato, che lui piace moltissimo giocare a pallone, che gioca spesso, ha una sua squadra. Quindi io al suo dire sorrido e mi mostro perplesso: sicuro che non hai mai giocato a calcio? Certo, risponde lui: e comincia il nostro, di gioco. Un balletto, un valzer. Mi ha detto un giornalista italiano di avergli procurato i biglietti per la Supercoppa italiana: Juve-Napoli nello stadio olimpico di Pechino, lo scorso agosto. Nega: ha visto la Supercoppa italiana, ma solo un paio di anni fa. A Yi gioca a nascondermi le sue verità, così come io gli nascondevo di aver parlato di lui con altri, di aver raccolto informazioni previe, altro che questa faccia da ingenuotto con cui mi sono presentato, e lo sguardo innocente di quella domanda: ma cos’è successo in polizia?

Dice A Yi: vuoi sapere chi sono? E allora te la conto su come mi pare a me. Sotto i baffi.

Qui c’è lo sguardo alla Thomas Millian (che simpatico Thomas Millian!), a un certo punto c’è perfino un brindisi tra un mio bicchier di vino e un suo d’acqua, ci stiamo divertendo assai, l’interprete intuisce ma non fa una piega, riesce a starne fuori riproducendo semplicemente il tono della conversazione: è la prima volta che l’incontro con uno scrittore che non parla inglese va via così liscio.

Nella mia testa anche una domanda a latere: potrebbe, A Yi, parlar male della polizia in pubblico? Denunciare roba troppo grossa? (Abbiamo gente intorno, siamo al Bookworm, bar/caffè/biblioteca dove si incontrano scrittori e industria editoriale, e i tre cinesi qui accanto chi sono?). Obliquità dunque: nelle mie domande, nelle sue risposte: siamo nella Cina della censura (precongressuale: l’8 Novembre si apre la grande assise di Partito, ne usciranno i nuovi assetti di potere nel paese più grande del mondo). No, mi sto lasciando sviare. È questo il problema della censura: te la trovi tra le balle come un macigno anche quando non c’è, in mezzo alla tua strada.

E allora torno sull’abbandono del posto in polizia: è stato davvero volontario? E lui dice sì, e qui vedo un ombra calare su noi tre, A Yi, interprete e sottoscritto: dice: la mia famiglia mi ha molto criticato, per questo. Non ha accettato l’idea che lasciassi un posto sicuro, per andare un po’ all’avventura. E’ difficile andare contro la famiglia, dico: risponde solo un sì. Poi aggiunge: ho avuto contatti rari da quel giorno: con loro e con il mio paese d’origine.

(Peccato non riuscire a proseguire: qui già qualcuno mi ha detto: i rapporti famigliari sono duri, i padri e le madri duri come il muro: beh, nei romanzi migliori è stato detto, e scritto).

Poi mi dice anche che ora, sì, lavora come responsabile di collana per una casa editrice (dovrebbe riuscire a pubblicare i migliori trenta-quarantenni): ma i suoi due boss litigano, sono in lotta: lui sta molto tranquillo, praticamente non fa niente. Non ha nessuna responsabilità. Ma ha tempo per scrivere. Bene. Forse è qui che è arrivato il brindisi, la risata: quando gli dico, insomma la tua vita è tutta così: ti annoi, lavori pochissimo. Non c’è problema. E il materiale per scrivere racconti dove lo tiri fuori? A Yi cambia registro. Si comincia a parlar sul serio: come a dire ok, basta con il gioco, prendi da me, dalla mia storia, quel che sei in grado di capire.

Il periodo da giornalista sportivo è fecondo: scrive su una rivista online, trova interlocutori.  Riesce a raccontare brevi aneddoti della sua vita precedente, da poliziotto, qualche storia, ed è proprio il redattore capo che intuisce quanto lui sia scrittore vero, è da qui che usciranno, riscritti, i racconti di ‘Grey Stories’, ancora grezzi a suo dire, e poi la sua raccolta più impostante, “The Bird Saw Me”, che viene recensita favorevolmente da Bei Dao, un poeta molto noto in esilio, e A Yi comincia a essere inseguito dagli editori. Sarà il primo caporedattore della rivista di Ou Ning, Chutzpah, comincia il lavoro da editor. La sua generazione sta venendo fuori, c’è più attenzione sui media, nelle case editrici, e lui è indicato come uno dei capofila.

Dice che la sua forza è la memoria degli anni in polizia: pochi direi, forse tre o quattro, ma bastano per lasciargli ricordi che la sua immaginazione forgia e distorce. Uno dei racconti nasce dalla riesumazione di una cadavere: la tradizione cinese richiede la cremazione, la famiglia decide quindi di portare a termine la cerimonia funeraria di un uomo che era stato seppellito pochi giorni prima. Quando aprono la bara (è una storia vera, lui era presente) si rendono conto di come le mani del cadavere siano spellate, le dita rotte: come se, sepolto vivo, l’uomo avesse cercato disperatamente di uscire dalla bara.

Ecco, da un episodio del genere, nasce un suo racconto: e A Yi sceglie di descrivere un uomo potente, un commissario prefettizio, che per rimarcare la sua autorità aveva  notificato la sua scelta di trasgressione. Si sentiva sopra ogni sospetto, imbattibile nonostante l’età avanzata. E viene sepolto vivo dai suoi nemici.

Ma certo che ne hai viste, da poliziotto! Altro che noia.

Sorride: ora mi sento lontano dal passato, i miei sono ricordi. Granta, dopo la sua recente apparizione alla London Book Fair, gli ha chiesto di scrivere un pezzo proprio su questo: come la sua esperienza in polizia si è tradotta nella sua scrittura.

“In effetti devo scriverla in fretta, tra poco scade il termine di presentazione. Credo che scriverò di cadaveri.” Mentre la frase viene pronunciata dall’interprete di nuovo A Yi mi guarda di sottecchi: solo così, con tanta ironia e gioco, si può parlar di tale materia.

Sto pensando, dice, a partire da un’immagine, un ricordo. Una strada davanti a me che dopo un centinaio di metri si inerpicava diritta su per la collina. La neve. E in mezzo a quella strada, sulla neve, un uomo riverso, a faccia in giù, con le braccia e le gambe aperte. Siccome la strada è in salita, a me sembra di vederlo dall’alto, come se stessi volando. Io e il mio collega corriamo, perché c’è una donna, una passante, che cerca di impedire a un cane randagio di azzannare il cadavere, di mangiarselo. Era un barbone, un senza tetto. Un poveraccio. Indossava una grande sottana, ma era un uomo. Abbiamo rivoltato il cadavere e abbiamo visto che aveva un grosso sasso al posto del fegato: sì, un buco, e dentro al buco un sasso, come se quella fosse stata l’arma con cui lo avevano assassinato.

Dice: scrivere è un modo per ricostruire (come mi dicesse: mi hai sentito ora, con le tue orecchie, nel mio racconto c’è una verità, la memoria, e poi altro, che ti ho regalato in diretta). Scrivendo si modifica la realtà, lavorando duramente. E’ come se io negli occhi avessi delle fotografie: parto da lì, e lavoro.

Basta, non ne può più. Comincia a parlar d’altro: sì, lui gioca a calcio spesso. Gli piaceva quel lavoro, da cronista sportivo. Gli piace il calcio italiano, e comincia a citarmi qualche giocatore: chi gli piace, chi non gli piace. Dice, non mi piacciono i giocatori belli: Baggio, Inzaghi. Non mi piace che un giocatore sia bello. E’ ora di salutarci.

Gli scrivo poi una mail: correggo il suo ricordo: non ci presentò l’editore che lui citava, ma un giornalista di Shanghai. Lui mi risponde subito (e ricorda – lo fa sempre – che ha tradotto il suo cinese con Google translator). Sì, è lui, mi sono sbagliato, hai ragione. Grazie. Sto scrivendo da tempo un romanzo. Scrivere è molto doloroso. Farò del mio meglio per terminarlo. A Yi.

Spero di rivederti presto. Andrea.


Categoria: Cina



Leave a Reply