In diretta dall'Asia

Ou Ning, tra città e campagna

Ou Ning: ci si rivede, a Pechino. E’ qui per poco meno di quarantott’ore, occupatissimo al suo ‘villaggio’, Bishan, nella direzione di un festival centrato sulla fotografia, ma con un po’ di cinema, di teatro – “abbiamo persino un suonatore di banjo americano, che viene direttamente dagli Stati Uniti” – con soldi governativi (la provincia, se dovessimo tradurre in termini italiani: lo Yixian, da cui poi il titolo di Yixian International Photo Festival) organizzato su un territorio abbastanza vasto perché i villaggi coinvolti sono sette: me ne mostra una mappa interattiva, i percorsi delle navette che porteranno i visitatori da un luogo all’altro. Ma chi saranno i visitatori, in un pezzo di campagna della Cina profonda? Visitors from outside and villagers: both of them. Vuole che si mischino, immagina una situazione nella quale i vecchi contadini del suo paese stiano seduti sul pullmino di fianco a qualche intellettuale di Pechino, o a qualche turista culturale europeo.

Sotto una scorza da toro infuriato, Ou Ning è un intellettuale raffinato, capace di districarsi in campi diversi e dotato di una erudizione spaventosa: come accade a chi si è ‘fatto da sé’, perché la sua famiglia, a Bishan, era una famiglia di contadini. Da quel che mi aveva raccontato la sua educazione culturale nasce dalle nottate passate a far chiacchiere (e bere, fumare) nella metà anni ottanta, con scrittori, filosofi, artisti, in quegli anni di risveglio decapitati poi dalla repressione dell’89. Oggi dirige Chutzpah, che mi appare come la più importante rivista letteraria nazionale, aperta anche a autori di altri paesi, al suo attivo ha la direzione della biennale di architettura di Shenzen, qualche documentario, e molto altro.

Ma insomma: villagers and visitors, bere e fumare, e un interesse spiccato per la storia del movimento anarchico e in particolare, direi, per l’anarcosindacalismo di un secolo fa: quel campo di forze  che influenzò gran parte del movimento operaio americano soprattutto, europeo in parte: insomma, un punto di riferimento possibile per le migliaia di microrivolte (qualcuno dice 15.000 l’anno) che scuotono la granitica Cina? (Ma del resto se la bandiera rossa è la bandiera del potere, ci vorrà bene un altro colore per le bandiere di chi invece.)

No, no. Calma: la politica se la faccian loro. Ou Ning non ha interesse al ‘macro’. Ou Ning resta sul livello del micro, scova nuovi autori, mette insieme persone di estrazione diversa e collega idee che cerca di pescare qua e là, nei suoi viaggi in Europa e negli States. A Bishan, accanto al festival provinciale, sta costruendo una sua sorta di fondazione, la Buffalo House (così, con la doppia denominazione in cinese e in inglese, e mi son dimenticato di chiedergli cosa c’entra il bufalo, forse c’è una relazione con il banjo – che era lo strumento musicale degli hobos americani, disoccupati senza radici, in giro per il paese sui treni merci: è questo il futuro prossimo della Cina? Ma basta leggere la sua introduzione al Festival http://www.bishancommune.org/buffaloinstitute/article.asp?id=298  per capire quanto interesse abbia lui al rapporto tra città e campagna, all’immigrazione urbana, al necessario rientro in campagna dei disoccupati).

Insomma a me Ou Ning da questa sensazione: di ritrovare temi e suggestioni tipiche di quelle che per l’Europa sono ere passate: e ci stan passando loro, adesso. Industrializzazione quasi forzata, contadini senza terra e senza protezione, quel disordine sotto il cielo che tanto piaceva a Mao, il quale però oggi ci guarda con il suo faccione stampato sulle banconote: che si sa, sono i soldi che fan girare il mondo (e ai soldi lui pare aver capacità di attingere, quanto meno su una base di relazioni: alla London Book Fair dell’aprile scorso c’erano lui e alcuni dei suoi – A Yi su tutti).

Io spero di riuscire a andarlo a vedere, questo festival, e questo suo villaggio. La cosa buffa è che per qualche strano motivo non mi riceve (non ci riceve: ha quattro appuntamenti in serie questo pomeriggio, un ora e mezza l’uno) nel suo ufficio, che pure non è lontano da qui: sceglie invece una collocazione anomala – dice: non è lontano da casa mia – al trentaduesimo piano di un grattacielo al bordo del Business District (CBD, in gergo), forse un po’ vecchiotto e già pronto, come tutto quel che viene costruito in Cina, a veder sciogliersi il cerone, a mostrar crepe a ogni angolo.

E’ un ristorante giapponese (vuoto, alle 14), siamo seduti a un tavolino su due divanetti in pelle i cui cuscini andrebbero rammendati, con la spalla appoggiata al vetro direttamente sull’abisso: ce ne saranno quattro, cinque, di edifici più alti, a vista d’occhio: lo sguardo spazia su Pechino tutta e le montagne in fondo.

E il formidabile, tozzo e massiccio Ou Ning, duro come il muro quando vuole (riceve brevemente una editor, parlano scambiandosi un libro di architettura, a lei quasi treman le gambe), Ou Ning filosofo che non sfigurerebbe su qualunque cattedra, si scioglie davanti ai miei occhi come un bambino che ha trovato il suo giocattolo quando mi parla della nuova scoperta letteraria: oh, ce l’ho, sai? L’ho trovato, un ragazzo giovane, ventidue anni ma a guardarlo e a sentirlo parlare glie ne daresti più di trenta. E’ di Chengdu, devi andare a Chengdu, a trovarlo. Perché è il primo di questa generazione che finalmente lo vedo che scrive: ha scrittura, non è la solita storiella i soliti quattro personaggi in croce: sono parole, frasi, tessitura.

Gli brillano gli occhi a Ou Ning: scrittura, altro che anarchia. C’est la vie, mon ami.


Categoria: Cina



Leave a Reply