In diretta dall'Asia

Una nuova libreria

Parliamo con piu’ calma insieme a Lijia Zhang. Per la verità l’inizio è un po’ affollato: si inaugura una libreria sul quinto anello, quasi mezzora in taxi per capire quanto enorme sia questa città (e tutta recentissima), in uno di quei quartieri nuovi che ne costituiscono la cintura: America, dice Lijia. Un centro commerciale grande come il Duomo di Milano, e al quarto piano la libreria xin hu shu dian (in traduzione inglese: new China book store, non si inventa nulla).

Mi spiegano che si tratta di una nuova catena aperta da un gruppo di persone, una specie di cooperativa di intellettuali. Qualcuno dice: si, una cooperativa a forte propensione piramidale, al cui vertice sta un artista (ha la camicia bianca con le maniche arrotolate e i capelli lunghi sulle spalle). Ne saprò di più la prossima settimana: lo incontrerò – e almeno saprò come si chiama la libreria, cosa vuol dire, e perché i quattro ideogrammi all’ingresso non sono presentati come tali, ma traslitterati in caratteri latini: non vedo libri in inglese, anche se il nome dei romanzieri stranieri è, come sempre, (anche) traslitterato sulle copertine. Franzen, Murakami, Roth, Gunther Grass, LeClezio…- e come in tutta l’Asia il nostro Calvino. Quanto a questo proprietario di libreria, non e difficile intuire che gli artisti sono quelli che fanno i soldi, in Cina, mentre gli scrittori si arrabattano (come dovunque).

L’inaugurazione è riuscita, ci sono molti giovanissimi, molte sedie davanti al palco dove un folk singer ci elargisce sonorità assimilabili più a Bob Dylan che a Faye Wong, una sezione della libreria é occupata dal tavolo dove cenano i cooperanti e gli invitati ufficiali. Lijia non è tra questi, e quindi neanche io. Lijia sconta la sua scelta di essere scrittrice di lingua inglese (un inglese assolutamente oxfordiano) che si é rifiutata di farsi tradurre in Cina perché la censura non accetterebbe mai il suo resoconto di un esilio seguito alle dimostrazioni di fine anni ottanta (Tian an Men, ma non a Pechino: nei dintorni di Nanchino), da parte di un’ex operaia che ora ha la capacità di porsi come figura di un certo livello, sempre agghindata in modo stravagante (a metà tra la strega femminista nostra anni settanta e la signora da jet set, insomma come a dichiarare: ragazzi, io ho visto il mondo: e questo immagino che disturbi).

(Inutile dire che come sempre incontro qualcuno che conosco, A Yi, lo scrittore con il quale ho appuntamento la prossima settimana, ma con un interprete perché parla solo cinese. A Yi, circondato da scrittrici di cui mi vengono recitati i nomi come fossero cosa nota (lavorano per la televisione, i loro romanzi sono stati adattati e loro si sono trasformati e trasformate in script writer’s, e sicuramente hanno i soldi per aprire librerie) è il prototipo dello scrittore d’antan: le sue raccolte di racconti sono ben recensite, lui esibisce una timidezza accentuata – e vedremo quando ci incontreremo in situazioni più semplici – e dopo qualche battuta con Lijia torna alla sua sedia dove china la testa sul piatto. Lo guardo da lontano, non parla con nessuno e dimostra un evidente imbarazzo: vorrebbe essere dovunque, ma non qui.)

Poi finalmente andiamo a cenare io e Lijia. Ristorante da centro commerciale, catena taiwanese, ma cena decorosa. E finalmente mi parla un po’ di lei. Lijia/LAIGIA, come pronunciano i suoi amici europei, perche la sua identita’ cinese sembra appannata, davvero troppo.

Allora, questa storia della mancata pubblicazione in Cina?

Dice che il suo primo libro, in cinese, era una sorta di saggio sull’immagine di Mao Tse Dong presso gli occidentali: lo propose all’editoria (ufficiale, di stato) a metà anni ottanta e le recapitarono poche settimane dopo il suo dattiloscritto censurato per più di metà: cancellato, intende dire! E’ strano perché Lijia/Laigia è la prima persona che mi parla della censura come di una sorta di offesa: un po’ come da noi un autore esordiente davanti a una raffica di rifiuti. Non mi volete? Non mi amate? Maledetti. Verrebbe voglia di indagare se all’origine della sua ribellione non ci sia, più che le condizioni di lavoro in fabbrica o l’aspirazione a libertà e democrazia, questo orgoglio ferito dello scrittore. (Bel tema questo: l’artista e la SUA propria aspirazione alla libertà d’espressione: fatto privato, che lo tocca nel profondo).

Ma Lijia andrà stretta in una angolo, un giorno, a raccontarmi per bene la sua posizione: dice che sta scrivendo un romanzo da molti anni, che ne ha più di cinquecento pagine in prima stesura e non è certo finito. Ma la trama resta per ora oscura. Parla un po’ per ellissi, sa che io cerco scrittori giovani, trentenni, e me ne parla male: dice che non escono mai dallo schema più semplice: io narrante onnisciente, terza persona, mancata assunzione del punto di vista del personaggio, come se dovessero adattarsi a uno schema – direi: necessariamente importato dall’estero, perché la tradizione classica cinese è tutt’altro, però non lo si può dimenticare: la rottura c’è stata, quarantanni di arresto di ogni reale produzione letteraria, gli scrittori degli anni ottanta che fondano la propria scrittura sulla lettura dei grandi russi, di Kafka, gli scrittori più giovani che cercano una strada nuova ma appaiono soggiogati dall’accademia.

Lijia mi sta letteralmente pedinando: così come è fonte per me di nuove conoscenze, altrettanto mi chiede di presentarla agli autori che incontro, di tenerla informata sulle presentazioni in libreria, sulle conferenze: sembra sia lei, e non io, a dover trovare una via per inserirsi nella bella società letteraria (che, se capisco bene, è un vasto circolo di autori di pochi quattrini, persone semplici e non mondane, che molto si incontrano e si parlano: in cinese, naturalmente).


Categoria: Cina



Leave a Reply