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Yan Ge: ragazzina

A regola, la venticinquenne Yan Ge (il nome di penna è omofono di young girl, non glielo faccio notare, e attendo invano che me ne parli lei) fa parte della generazione dei cosiddetti balinghou , i nati negli anni ottanta, di cui Han Han  e Guo Jingming sono i campioni. Ma è cinque anni più giovane, e fa molto.

Yan Ge ha vinto lo stesso premio nazionale che vinse Han Han, dedicato ai giovanissimi ancora in età scolare: ma se Le Tre Porte di Han Han resta il suo più noto romanzo, Yan Ge non vuole più saperne di quel testo vincitore: dice: avevo quindici anni, “vorrei distruggere quel libro”. A quel tempo i testi vincitori, insieme a centinaia di altri, andavano in rete a costruire un cortocircuito tra giovanissimi lettori e giovani scrittori (osserva giustamente: probabilmente i lettori erano più vecchi di noi, e cercavano dai giovanissimi le storie in cui riconoscere la propria adolescenza). L’industria editoriale ci si gettò a capofitto. E Yan Ge è onesta: ho scritto troppo: quantità, e poca qualità.

La sua storia è la storia di una scrittrice giovanissima che viene letteralmente bruciata dalle pressioni:  dell’editore, da un lato, che vuole un libro l’anno, e della famiglia dall’altro: una famiglia di letterati (la nonna è una poetessa nota, il padre e la madre, come il nonno, insegnanti e collaboratori dell’editoria) che le sta col fiato addosso (lei è figlia unica, naturalmente, e lo dice subito: meglio per me se avessi potuto condividere con un fratello o una sorella questo peso): hai scritto? Hai lavorato?

Allora ecco Yan Ge, nome di penna: ideogrammi che indicano suono e colore, come a dire musica e pittura: come a dire io sono diversa. Afferma decisa: per nascondermi!

Dopo il premio a diciassette anni e la prima pubblicazione, una novella compare su Harvest, rivista letteraria di Shanghai (l’equivalente della pechinese People’s Literature Review). Il suo cammino è impressionante: sono dieci libri in dieci anni, cinque raccolte di racconti e cinque tra romanzi e novelle di cui lei semplicemente dice: non mi piace quello che scrivo. Eppure devo continuare. E al termine di questo percorso ora arriva, finalmente, il romanzo che lei ritiene buono: “Papà non è morto”.

Facciamo un passo indietro. Yan Ge si siede davanti a me al tavolo del Bookworm come fosse un manga giapponese. Ha occhi enormi, scuri, sicuramente disegnati da un chirurgo pagato da quei dieci brutti libri, ed è la prima cinese che vedo così ricoperta di fard, uno strato che maschera forse una pelle ancora adolescente. Il viso è grazioso, leggermente irregolare – una percettibile asimmetria – e l’inglese, anche se imperfetto, è slang americano: costa orientale, North Carolina, dove per un anno si è specializzata (è laureata in lettere in Cina, e quello alla Duke University non mi sembra il solito corso di creative writing (ce n’è uno nell’Iowa che calamita tanti scrittori asiatici): più un master vero e proprio di cui scrive la tesi finale su un testo di Liu Xie, (Dinastia Quing, mi dice per datarlo, cioè tra la metà del 17° secolo e l’inizio del novecento): The Literature Mind and the Carving of Dragon: insomma un testo classico sulla letteratura cinese classica… E ancora non ha finito: sta per concludere un PHD a Chengdu. In futuro chissà, le piacerebbe un’ulteriore specializzazione.

Sta di fatto che l’anno in North Carolina è proficuo: fatica a fare amicizie, e si prende del tempo per sé: scrive. Quando torna in Cina ha capito che per costruire un buon romanzo ci vuole del tempo: almeno due anni, spiega sicura. Per questo anche qui si è isolata, ha terminato una prima stesura, e la seconda capisco sia arrivata grazie al confronto con un esterno: qualcuno che non fosse della famiglia: questo è l’importante!

“Papà non è morto” nasce come seconda opera di una tetralogia iniziata tre anni fa: una cittadina fittizia organizzata su quattro strade perpendicolari, che dalla piazza centrale dirigono sui quattro punti cardinali. Il romanzo già scritto riguarda i cittadini di South Street, che sono per natura dei combattenti, dei lottatori, dei carrieristi. Questo romanzo parla della strada Ovest, dove abitano gli intellettuali.

(L’Est è dei funzionari dello stato: amministrazione, ospedali, forze di polizia. Il Nord, dice in inglese, è degli outsiders – e qui fa una piccola digressione, raccontandomi come sia tipico in Cina che una città venga costruita sulle sponde di un fiume, sul suo lato nord: affacciata così verso il Sud da cui proviene il sole anche d’inverno. L’espansione verso nord è a opera dei più poveri, dei meno potenti, o dei migranti dalla campagna che più naturalmente saranno portati a lasciare la cittadina per cercare posti di lavoro migliori in città più grandi. Ma i suoi outsiders non saranno (solo) i poveri: piuttosto gli artisti in genere: diciamo l’underground. Spesso la via del nord in Cina – verso la capitale, verso Pechino – è la via dell’emigrazione, della ricerca, del riscatto).

“Papà non è morto” è una commedia satirica il cui protagonista è proprietario di uno stabilimento che produce cibo piccante: è il romanzo è piccante, sporco, gustoso. Mi dice spicy and hot: la storia è raccontata dal punto di vista figlia che narra di papà, e della sua amante. (E ripete: dirty, spicy, fondly. Io ne ho lette una dozzina di pagine in traduzione inglese: la Cina su questo stupisce ancora: ci sono solo poche descrizioni delle notti che papà trascorre nel letto dell’amante, dei suoi gridolini, del ‘più volte’, e, al massimo, i ‘due colpi profondi e intensi’ di questo papà: per noi, piccante non granché, anche perché purtroppo io trovo la sua prosa – in traduzione inglese – ancora un po’ piatta: è sempre quel modello di narrazione semplice, divertita, arguta, che sto abituandomi a considerare la palla al piede della narrativa contemporanea cinese).

Sarebbe necessaria una riflessione, qui, sui maestri di queste ultime generazioni di narratori:  sul contesto al quale si riferisce una loro idea di letteratura (io son di quelli che diffidano, in generale, di questo termine). Yan Ge, come molti altri (lo stesso Mo Yan, A Yi nel suo incontro con me), nomina Faulkner, senza realmente spiegarmene un motivo: andrà indagata, questa eredità. Un innovatore dello stile: ma Yan Ge non mi sembra che innovi nulla. Poi nomina Camus. Ma a me pare un tentativo più di situare sé stessa agli occhi dell’interlocutore, che non di identificare i propri maestri. E non è detto che ciò che Yan Ge ha letto, ciò che l’ha colpita, si riverberi poi nella sua scrittura. In ogni caso: scrittori stranieri di epoche che in Cina (per quel che riguarda la produzione cinese) furono letteralmente oscurate: il modernismo degli anni tra i venti e i quaranta fu, con l’avvento del comunismo, combattuto, ignorato, praticamente censurato, e i tre decenni dopo la rivoluzione furono un epoca di totale asservimento alla propaganda politica (con il picco negli anni dalla Rivoluzione Culturale): il blocco totale di ogni possibile produzione letteraria. (Qui ora va di moda dare tutte le colpe alla Rivoluzione Culturale: ho incontrato recentemente un docente universitario che ha voluto separare in modo netto il decennio ’66 – ’76 dagli anni precedenti e successivi: a suo avviso questi periodi erano liberi dalla censura esercitata durante la Rivoluzione Culturale, ma viziati (!) da una propensione all’ottimismo (!), che è un modo divertente per descrivere la propaganda di regime – però questa parola è bellissima: in Italia l’ho sentita usare spesso negli anni ottanta e novanta, da chi voleva difendere la piattezza culturale di quei due decenni. Ottimismo? Ma andate a cagare).

Tornando alla nostra giovane ragazza, suono e colore, musica e pittura, Yang Ge mi spiega che il suo tentativo è quello di partire dalla memoria (memoria di famiglia, soprattutto) e trasformarla: mi dice: come se il mio romanzo rappresentasse una sorta di realtà parallela. Il limite, a me sembra, sta sempre nella scrittura.

Ma ha voglia di lavorare, di capirsi. A differenza di altri Balinghouè cosciente dei propri limiti, non si ferma a questo successo giovanile. Per il PHD a Chengdu sta completando una tesi sugli scrittori migranti negli USA, che arrivano nel paese e scrivono in inglese, vengano essi dal Perù o dall’Etiopia o dalla Cina. Mi dice: mentre ero alla Duke ho preso le liste dei migliori under 40 stilate da Granta e dal New Yorker, e me li sono letti tutti. Poi ho scelto di concentrarmi sui migranti, ma non sotto l’aspetto letterario, quanto su quello culturale in genere.

L’appuntamento, con Yan Ge, è per novembre, a Chengdu.

PS. E si dovrà provare a fare un parallelo tra Yang Ge e Han Han, no? Qui sì, una asimmetria. Stessa famiglia di letterati (il padre di Han Han, che è poi il padre del protagonista di Le Tre Porte), ma differente reazione. In Le Tre Porte il protagonista si perde, viene rovinato proprio dall’eredità classicheggiante di famiglia, dalla Letteratura con la L maiuscola: lo scrittore Han Han invece mi sembra che se ne distacchi con leggerezza, dalla famiglia e dalla Letteratura. Yan Ge sceglie la strada opposta: accetta le pressioni, studia, ma studia per svincolarsi da questa eredità: sceglie la Letteratura (ahimè, chi mi traduce il suo romanzo?).


Categoria: Cina



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