In diretta dall'Asia

Caro Zhu Wen

Caro Zhu Wen,

mi piacerebbe incontrarti più spesso. L’idea è semplice: seguirti passo passo magari per una settimana intera, vedere come lavori, dove vivi, come spendi il tuo tempo e come ti relazioni con gli altri. E’ quel che deve fare chi, come me, vuole scrivere poi un libro sugli scrittori asiatici.

Zhu Wen con me è di una delicatezza che a volte mette in imbarazzo. Mi chiama fratellino (perché io dichiaro di apprezzare e di capire – di condividere: di essere, come dire, d’accordo – con quel che scrive nei suoi libri e mostra nei suoi film, almeno i due che ho visto), appena torna a Pechino viene a trovarmi, con l’idea di spendere una giornata intera con me e mostrarmi la città. Esibisce un piacere per l’ospitalità che sembra venire da lontano, paga sempre lui, porta – scorta – me e mia moglie dai massaggiatori ciechi (decenni fa lo stato ebbe l’intuizione: un cieco cosa può saper fare meglio se non usare il quinto senso, il tatto? E li arruolò). Poi dice che si son fatti massaggiare anche lui e sua moglie ma giù al piano terra, però svicola il discorso, secondo me sono andati a spasso per due ore.

Perché poi vien fuori, sotto sotto, una scorza dura. Di lui e di qualche altro si è detto: liumang. Letteratura da tamarri: e non è un insulto, è constatare chi sono i suoi personaggi. Le esplosioni di affettività, le pacche sulle spalle e gli abbracci (fa lo stesso con me anche sua moglie, mi prende imperiosamente per il gomito e mi guida per le strade, ma qui è un’abitudine), lascian trasparire una strafottenza del corpo, un misurarsi. Un poco anche per ricordarmi che io ho quindici anni più di lui e quindi non posso.

In ogni caso, caro Zhu Wen (le ultime mail le firmava Z.W., ora firma Z.), lasciami capire di più, perché va bene leggerti, ma io vorrei vederti agire. E sono fratellino, no? Sono l’unico che in quella sala di Venezia, alla proiezione del tuo ultimo film Thomas Mao, non ha storto il naso. La mia moglie programmer cinematografica ha detto: no, non ci siamo. Ci sono quelle due parti che non c’entrano per niente l’una con l’altra. (Come se ci fossero delle regole, delle coerenze necessarie, alle quali non si possa scampare).

Due segmenti di un film come due film diversi. Nel primo uno straniero, un americano, arriva presso una catapecchia in una landa desolata: colline di erba gialla e rada, un laghetto. Non ricordo quale fosse il suo incarico lì, quale ricerca dovesse compiere (forse non vien detto): ma è in quella catapecchia che ha l’ordine di installarsi e di passarci del tempo: mostra le carte, i documenti. Chi la abita è un cinese piccolo e incazzato che in quel suo regno vive di pesca, di qualche animale da cortile. E inizia un lungo conflitto con lui, fatto di sottile ostilità e poi ostilità manifesta, tra galline, oche, cani, boicottaggi. La lotta tra due umani per definire il proprio territorio. Tra Thomas e Mao.

Nel secondo segmento, improvvisamente, gli stessi attori – gli stessi nomi – ma due persone diverse: in un atelier importante, Mao è artista famoso e la sua serie recente, che tanto è stata acclamata, è costituita da ritratti tra cui molti Thomas: e qui, mi domandavo io vedendo il film, quale sottile lotta per il territorio tra i due uomini (forse, un po’ troppo didascalicamente, tra un bianco e un cinese), quale lotta tra l’artista cinese e il mercato occidentale in quel gioco di specchi (e di danari) che è l’arte contemporanea?

Non l’ho proprio capito: questa è la frase che circolava tra il pubblico, al termine della proiezione. A me dispiace: non capite. Fosse Malick, gli innalzerebbero peana: ma Zhu Wen è lontano da ogni pretesa di spiritualità, da ogni cosmologia: è terreno, ferrigno. La mia sensazione è che lui (Z.W., Z.) sia vicinissimo, nella scrittura e nella cinematografia, al punto in cui si costruisce un piccolo capolavoro: e che questo non sia ancora venuto, ma solo per un pelo.

Della sua biografia artistica so spizzichi e bocconi: vive i ruggenti anni ottanta (non c’entrano nulla con i nostri), all’Università di Nanchino, a fianco di Han Dong e delle sue riviste. Sicuramente (e questo vorrei mi raccontasse: per ora non lo ha fatto, come mi dicesse: accontentati di quel che scrivo, e giro) anni forti di formazione, di discussione collettiva sulla letteratura, l’arte, la filosofia, stroncati dalla repressione dell’89. I novanta sono poi gli anni in cui il gruppo di Nanchino elabora il famoso manifesto Rupture: che al di là di come si compone (una bizzarra serie di domande al potere, con una sorta di humor nero, e nonsense) esplicita la scelta di questo gruppo di scrittori di restare in patria a dispetto della censura, disponibili a evitare i ‘temi sensibili’, ma considerandosi liberi di raccontare (e quindi criticare) senza freni la società cinese e le relazioni umane in quel paese: cinicamente, si è detto di Zhu Wen: io dico con passione per la verità. Ha scritto più di cinquanta racconti, pubblicandone raccolte in cinese (solo Dollari la Mia Passione è stata tradotta in più lingue), e poi il romanzo (Se non è Amore vero allora è Spazzatura) che rimane a languire in un cassetto prima di  un editing adeguato, che portandolo al suo termine, me lo consegna per la pubblicazione in Italia. Risultato (Zhu Wen mi pare proprio il tipo di autore che non ha interesse a una trama, e forse si domanda perché un romanzo debba avere una fine, o non debba piuttosto spegnersi nel nulla: siamo davvero fratellini io e lui, sì): poco successo di vendite in patria e fuori, a fronte di forti riconoscimenti critici e di una stima confermata da ogni scrittore o intellettuale che io abbia incontrato.

E allora, ecco la scelta di lavorare nell’industria cinematografica: fonte di reddito sicuro, almeno. E si comincia bene perché il suo Seafood è premiato a Venezia: Gran Premio della Giuria (è il film, questo suo, più famoso, che io non ho mai visto: dice che è secretato dal produttore, che non vuole dvd in giro o roba su internet che poi viene craccata). Ho visto South off the Clouds (che ha vinto un premio minore a Berlino, ed è la tragicomica storia – ma mai commedia, in Zhu Wen – di un tale che perde la moglie, il lavoro, la casa, e per non saper che fare decide di partire: torna nello Yunnan – era slogan maoista, che intendeva: tornare nelle campagne, occuparsi dei contadini poveri, aiutare lo sviluppo rurale – e tra varie vicissitudini si ritrova davanti alle colline del suo amato paese d’origine, dove non conosce più nessuno, e che farà dopo non lo sappiamo, ma c’è poco da fare). Poi Thomas Mao che gira qualche festival – Shanghai, London, USA – ma senza riconoscimenti né distribuzione in patria.

Alla mia sollecitazione risponde positivamente: sì, tornerò a scrivere. Me lo ha detto fin dal nostro primo incontro e sono passati cinque anni. E’ evidente che la scrittura è il suo mondo: lo capisco quando gli spiego che io, qui in Cina, ci sono da scrittore più che da editore: mi dice: bene!, puoi essere te stesso, e sta pensando a Zhu Wen, lui. All’impossibilità di essere sé stessi se il mercato non ti premia. (oddio: tradotto e pubblicato in quattro lingue, distribuito in tutta l’Asia in inglese… non sembra poco: ma non basta per campare).

Caro Zhu Wen, ti posso intervistare, un giorno, far domande chiare e aver risposte certe? Un due tre ore?

Sì, dice lui. Vengo da te domani.

 


Categoria: Cina



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