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Il Comunismo?

Mi colpisce, di nuovo a cena con Lijia Zhang, una frase sul suo passato da operaia. Dice: non è che si facesse così fatica. Lo sapevamo tutti: lavoravamo per lo stato, e se le fabbrica era grande non c’era bisogno di dannarsi più che tanto. E’ vero: era noioso.

E’ come se Lijia confermasse le parole di A Yi qualche giorno fa: che si annoia qualunque lavoro faccia, che non c’è mai bisogno di lavorare molto (io mi ricordo, in una mia vita precedente, di aver sentito le stesse frasi nella Tanzania socialista degli anni ottanta: economia di stato, l’iniziativa individuale considerata illegale – un mio amico aveva avuto la brillante idea di comprare una ventina di copertoni e camere d’aria per bicicletta e le portava al villaggio, dove le avrebbe rivendute al doppio: ma era contrabbando, pericoloso – e mi ero sentito dire: non c’è niente da fare: stiamo seduti e aspettiamo).

Che relazione c’è tra il comunismo d’attesa, la successiva scossa liberista che scioglie ogni protezione da parte dello stato (solo la scuola primaria è gratuita, la salute costa cara, e non credo ci siano forme complete di previdenza sociale se non quell’unico figlio concesso dalla legge) e spesso da parte della comunità (il contadino trapiantato in città non ha più una collettività attorno, una famiglia allargata, una piazzetta o un vicolo: anche se la Cina tiene duro, e ogni volta che un pezzo di popolazione viene spostata dalle case di corte, dai vicoli, agli appartamenti monofamiliari, cerca di ricostruire un suo mondo in strada: gli spiedini sulla brace, la saletta per giocare a Majong, il circolo degli anziani – e gli anziani e le donne sembrano guidare questa resistenza ritrovandosi la sera anche nei parcheggi deserti sotto ai condomini a fare ginnastica insieme o a ballare una specie di Tai Chi contaminato da ritmiche moderne: plotoni di donne e rari uomini, in file e righe ordinate che ballano in sincrono, stessi gesti, stessi movimenti, eredità dei balletti popolari di propaganda, mezza tradizione ancestrale mezzo addestramento formale all’obbedienza. Ho già visto tre volte suonatori di sassofono agli angoli dei vialoni trafficati di Pechino, uno era un bambino di nemmeno dieci anni: non suonavano per il pubblico, erano lì a studiare, esercitarsi: in strada).

Riprendo la frase: che relazione c’è tra comunismo d’attesa versus scossa liberista, e la manifesta insufficienza della narrativa contemporanea in Cina? Perché finora io l’insufficienza l’ho vista (in questo senso vanno le mie domande agli scrittori che incontro) come una tara dovuta alla rottura col passato, ai trenta quarantanni di silenzio e propaganda (un docente universitario mi ha detto: erano anni ottimistici, si doveva sempre essere fiduciosi: gli ho detto che da noi questo tipo di imposizione è venuta dal mercato, dall’auditel), e alla negazione dei cinquantanni precedenti, quello del modernismo in letteratura. Ma potrebbe non essere solo così. Mi torna in mente A Yi, che parla dei suoi anni in polizia come anni noiosi, e poi dei suoi anni da cronista sportivo come anni noiosi, e perfino ora della sua attività di editor come lavoro noioso (mi lasciano tranquillo, non mi chiedono quasi nulla). Lui ha fatto la scelta giusta: questa cappa l’ha girata in cupezza, e allora vai con le storie di cadaveri, e morti ammazzati: scelta azzeccata che ne fa uno dei migliori in assoluto.

Ma questa cosa c’è/non c’è nella letteratura contemporanea cinese? Ne è una sua cifra, così come ne diventa cifra il nuovo liberismo selvaggio? Mi pare di no, purtroppo. Come se gli scrittori stessero altrove, calzassero, nello scrivere, scarpe nuove e diverse da quello che calzano ogni giorno calpestando le strade del loro paese.

Anche questa è censura, o meglio, autocensura.

 


Categoria: Cina



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