In diretta dall'Asia

Parole

Una piccola riflessione sulle parole, e sulla loro sostanziale intraducibilità.

Niente di apodittico. Ma oggi mi ha colpito l’utilizzo di una delle rarissime parole che conosco in cinese: ni hao.

Ni hao è usato per salutare: quando ci si incontra, non quando ci si lascia. I due ideogrammi si possono singolarmente tradurre con tu buono (il secondo, se è avverbio potrebbe essere addirittura okay, se verbo amare, piacere, apprezzare). In sostanza, quando si incontra l’interlocutore, si dichiara benevolenza nei suoi confronti. Non è semplicemente un saluto (ma del resto: che cos’è un saluto? A cosa serve un interiezione, quando due persone si incontrano? Che cosa è necessario premettere a qualunque altra parola? – per esempio un saluto, che augura salute), ni hao viene però usato ogni volta che si vuole attirare l’attenzione. Quindi a ogni inizio di discorso: anche se hai appena salutato: quando ti stan mettendo un piatto in tavola, se devi chiedere al taxista di tirar su il finestrino, se qualcuno ti chiede di spostarti, o dopo che ti sei seduto ti chiede di dare un’occhiata a un nuovo documento… Molto ossequioso, certo (il rischio è di ripetere un refrain sulla cortesia orientale). Quasi formale. E quindi se lavorando su un testo cinese traduci ni hao e scrivi ciao, o buongiorno, o salve, non hai tradotto il vocabolo per intero: manca qualcosa del gesto, dell’intenzione, e anche dell’abitudine di chi lo pronuncia.

Non so fare in questo momento un paragone completo con le nostre lingue: non so da dove venga hi, o hello. Hola, in spagnolo. Come va?, dicono i francesi se non dicono buongiorno. In swahili (o dovremmo dire kiswahili, come dicono gli swahili?) si assiste a un lungo scambio di cortesie (che notizie? Notizie buone, grazie, che notizie tue? E avanti così abbastanza a lungo, prima di trovare la serenità di cominciare la chiacchiera: forse ogni nuovo incontro comporta uno spavento, un timore: e i cinesi infatti ti dicono che sei buono, ti incoraggiano, ti nominano non nemico, qualunque cosa stiano per dirti o per chiederti). Il nostro ciao deriva da uno sciao (pronuncia s-ciao), nel senso di schiavo vostro. Ma curiosamente in molte parti del mondo (l’America latina ad esempio) è ormai comunemente usato per dirsi addio, arrivederci: non all’inizio dell’incontro. E a proposito di primo incontro: il gesto di darsi la mano deriva dalla necessità di tenersi reciprocamente impegnata la mano destra: che non impugni la spada, il coltello, la pistola.

Allora proviamo questo, di paragone: come si definisce colui che non appartiene alla tua razza?

Perché, per esempio, nelle nostre lingue il sostantivo è sempre legato al colore della pelle: negro (nigger), che diventa nero solo perché ci siamo ingentiliti di recente; giallo (nel senso di muso); cioccolatino? Abbronzato… e il negro è negro comunque, anche se indio, pakistano, fijiano. Basta il colore: ma ho sentito definire negri anche i cinesi, in Lombardia. E’, evidentemente, sempre e comunque dispregiativo. Ma non siamo solo noi a disprezzare. So che la parola utilizzata dai Rom è la stessa che indica in generale gli animali a sangue caldo: ma va intesa come umano: quindi estesa anche ai Rom stessi, quando non definiti secondo la loro propria etnia specifica.

Invece i giapponesi dicono gai jin, che vuol dire persona che viene da fuori (straniero per noi, da una radice greca xènos: ma Zeus era xenio, perché il dovere dell’ospitalità è sacro: si viaggiava poco allora). I cristiani definivano gentili i popoli pagani: il dizionario etimologico D’Anna dice ‘anticamente termine cristiano o ebreo da gentes gentis ovvero comunità rurali: quelli che vivevano nei villaggi cioè erano ancora pagani. I non ancora convertiti. Mica male che diventi termine ebreo per designare i cristiani!

I cinesi del sudest asiatico (dialetto hokkien) per definire gli occidentali dicono ang mo, letteralmente diavolo rosso, e qui si torna al colore (dei capelli, ma solo per qualcuno, o forse per tutti i biondi e i biondastri che gli venivan fin lì) e il diavolo sta evidentemente per persona cattiva, forte, pericolosissima (tutte le ragazze di Singapore cercano di sposarsi un ang mo, e i cinesi di lì non son mica tanto contenti. Gli swahili come sempre sono i più fantasiosi: mzungu (bianco) è sostantivo che deriva dal verbo kuzunguza che vuole dire parlare in giro, andare per il mondo a far discorsi.

E I cinesi? Beh, mi dicono che non identifichino noi bianchi con un termine particolare. In genere di uno straniero si dice: lao wai: e cioè, appunto, vecchio straniero. Perché lo straniero debba esser vecchio non l’ho capita benissimo: ma se detta con cattiveria è per sminuirne la forza, se invece con amicizia per un omaggio.

 


Categoria: Uncategorized


One Comment

  1. luca says:

    sarà per rispetto o quantaltro, in realtà esiste un termine per i bianchi “ta piza” che sta per grosso naso, e il mio amico giannino me ne aveva insegnato un altro che ora non ricordo

Leave a Reply