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Zhou Kai, in provincia

Bella giornata, ieri con Zhou Kai. Nella sua Leshan, cittadina di provincia come dice lui: 3 milioni di abitanti! Uno spaccato di come cresce la Cina, con un quartiere nuovo di zecca a divenire nei fatti un nuovo centro affiancato al precedente: una piazza ampia e profonda, una rotatoria circolare che la notte si illumina di tante luci colorate, un po’ sculture un po’ niente; i cinesi il kitsch sembrano avercelo nel sangue, erano già pronti alla profusione di nuova ricchezza e classe media, i grattacieli bordati di neon luminosi in movimento e incoronati da anelli spaziali, metà mazinga metà cineseria. Che contrasto con il villaggio periferico dove mi porta Zhou Kai: è la Su Ji dove il suo bisnonno aveva una bottega di alimentari, e fu bombardata dai giapponesi nel ’37 (dice lui: per sbaglio, volevano bombardare la zona industriale, perché qui vicino si estrae minerale ferroso: e il bombardamento fece ancora più morti perché molti, scappando dal villaggio, si arrampicarono su un monte lì vicino, proprio nella zona delle miniere).

La parte più antica di Su Ji è intatta: ed è un luogo di bellezza straordinaria, su due rive di un fiume verde di alghe, attraversato da un ponticello basso, quasi un guado in cemento. Sui due lati del fiume le sale da te hanno, nella semplicità e povertà di questo sobborgo, uno stile ineguagliabile, le sedie e i tavolini con un loro disegno standard, ma ciascuna singolarmente assemblata dalle mani di un artigiano: è lo stile del vicolo, dove non c’è la serialità industriale, ma c’è l’omogeneità della cultura: fatta di sempreverdi che proteggono dal sole o dalla pioggerella sottile le centinaia di persone – certo, più anziani che giovani ma non solo anziani, più uomini che donne ma non solo uomini – che giocano a majong, a carte (con due tipi diversi di carte), a scacchi (o dama?) cinesi: Zhou Kai e l’interprete dicono chess.

Zhou Kai: qui si ferma e intende restare a vivere, nella provincia comunque riservata, tranquilla, che non lo distrae (posso immaginare le notizie che da speaker rilancia non siano così eccitanti – anche l’interprete mi dice: che bella voce che ha!), e mi sorprendeva il centro, la sera del sabato: persone giovani in giro, tutte ben vestite, altro che Pechino: qui sì conoscono il valore dell’essere ceto abbiente, si godono lo status, e fanno le loro vasche contenti: sotto questa coltre di banalità si nasconde Zhou Kai a scrivere i suoi racconti.

Gli ho chiesto da dove provenga la sua vera e propria passione per la lingua, quando è nata: perché Zhou Kai questo ha di diverso dagli altri: la sa lavorare. Ho dato in traduzione qualche pagina, ho capito che lui mescola un cinese mandarino alto, sofisticato (mi hanno detto: la lingua dei giornali usa un massimo di tremila caratteri, lui ne sa usare almeno seimila – e Zhou Kai dice: di più, sono almeno diecimila) con il dialetto sichuanese, che usa un po’ per dare registro colloquiale ai dialoghi, un po’ per giocarci sopra (la traduttrice italiana si spinge fino a Gadda…). Da dove viene questa voglia di giocare con la lingua?

Risponde beffardo (perché a ventidue anni, con una voce da tenore smaliziato, e forse a mascherare in modo eccellente una timidezza che trasfigura in cortesia e sicurezza – la maschera di Zhou Kai: dopo ne dico – davanti a un europeo di sessantanni che fa domande indiscrete si può anche provare a svicolare, no? E poi è scrittore, ha immaginazione… questo ragazzo mi ricorda A Yi). Oppure sincero? Che sua nonna gli raccontava storie, la sera, da bambino prima del sonno. E lui si addormentava a metà. Erano storie di cui non sapeva mai la fine, ma la cantilena, evidentemente, metteva radici.

La maschera, dicevo: perché i quattro racconti che mi ha descritto, e soprattutto i due che ho dato in traduzione parziale, trasudano versatilità: sono uno diverso dall’altro, anche i registri che sceglie, pur nella costante ricerca di una lingua mobile, sorprendente. E se a questo aggiungiamo il ragazzo che sceglie di studiare comunicazione radiofonica, che pronuncia testi non suoi ascoltati da migliaia di persone, rinserrato dietro a un microfono, ecco il profilo dello scrittore che si nasconde, che cerca una sua voce che non è sé stesso, ma un altro sé stesso.

Nessuna necessità di riconoscimento pubblico, nessuna voglia di diventare star giovanile: a differenza dei balinghou, ma anche dei trenta quarantenni sempre in caccia di una pubblicazione – in qualche modo di una autorizzazione a essere scrittori – lui si sottrae: ha il suo lavoro, gli basta. E ha una filosofia chiara: non vuole scrivere storie innestate su un background storico, o politico.

Eppure la sua cifra mi pare lontana da quella di tanti coetanei: quelli della fantascienza, del fantasy. Certo, mi cita come altri Garcia Marquez, il realismo magico (cantilena abituale, in Cina): a me sembra – di nuovo utilizzo questo termine – che per gli scrittori sia un fatto di autorizzazione: a scavare nella favola ancestrale, nella tradizione, a muovere il loro racconto entro confini meno angusti di quelli – forse – imposti dalla censura e dall’autocensura: per quel che racconta Zhou Kai (una ragazza, violentata, madre sola, che si trasformerà in maschio) non c’è bisogno di scomodare Garcia Marquez: anzi. Gli cito Calvino, lo conosce, ma non tutto. Cito Carrère, Pynchon: non li conosce.

Mi lascia una perla di orgoglio sichuanese: Li Jie Ren, un grande autore anni venti, da Chengdu, che, dice Zhou Kai, è meglio di Lu Xun: perché in Lu Xun c’è guerra, rivoluzione. Odio. Li Jie Ren è più – traduzione da interprete – culturale: intende dire che non da giudizi storico politici, racconta storie di persone. Persone come quelle che abbiamo visto giocare a carte lungo il fiume, o quelle che abbiam visto a spasso il sabato sera in centro. Persone come sua nonna che raccontava favole, o suo bisnonno che scappava dalle bombe.

Vuole la sua libertà, questo ragazzo che non scrive di politica e storia: e dice: non c’è bisogno di aver paura della censura, non c’è vincolo reale. E in un prossimo racconto, in parte già scritto, c’è dentro una figura famigliare, un caro amico di suo padre, di cui lui ha grandissima ammirazione: che era in piazza Tien an Men in quell’89 impronunciabile, scabroso: Zhou Kai lo pronuncerà. Perché ha ventidue anni, lui, e una bellissima voce.


Categoria: Cina



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