In diretta dall'Asia

Sono un tipo antisociale…

… non mi importa della gente, a me piace stare a casa a non far niente: era l’Equipe 84, fine anni sessanta.

Troy Chin, graphic novelist da Ang Mo Kio, suburban Singapore (ne ho scritto qui un anno fa) continua imperterrito a non avere un telefonino, né un’automobile. L’anno scorso questo posizionamento di sfida al mondo ordinato di Singapore aveva prodotto, nell’ordine, un tre quattr’anni di precarietà economica, un ottimo graphic novel in cinque volumi su Singapore e la sua gente (l’ho scritto: forse la cosa migliore sulla città stato, città azienda: The Resident Tourist), una dolorosissima rottura con la fidanzata, una striscia quotidiana (Loti) sullo Straits Times, e lo Young Artist Award 2011, con paginone e foto sullo stesso Straits Times.

Poi, aveva dichiarato dal suo sito/blog/facebook che Loti era finito, esaurito: una striscia al giorno scandendo i giorni nella vita di un ragazzino e del suo cane volante nella Singapore dei bei tempi andati, quella dell’infanzia di Troy Chin, quando tutto era più semplice, i ragazzini non erano irreggimentati da corsi di basket e vacanze intelligenti ma scorrazzavano in libertà per le strade del quartiere, come era allora: case, negozietti di caramelle e campi gioco: tutta roba oggi sostituita da magnificenti centri commerciali e attività multiple tra i quali si muove depresso e intelligente il suo turista residente, un singaporeano rientrato alla base dopo dieci anni a New York (lavorava nell’industria musicale), improvvisamente preso da nostalgia e amor patrio, e paracadutato in questa realtà trasformata a non saper che fare, se non cominciare a scrivere e disegnare: Troy Chin, dunque. Loti, in ogni caso, era finito, e io mi ero domandato dove avrebbe trovato il carburante per sostentarsi questo ragazzo: carburante esistenziale, intendo: stare in piedi e non sbarellare davanti a una pagina bianca.

Un zic di narcisismo lo nutre di una disassata alternanza tra depressione e euforia, e oggi me lo trovo davanti euforico: è in stampa il libro nuovo, graphic novel sull’industria musicale (il tema mi sembra ampio: pare che citi nomi famosi, nascondendoli dietro a pseudonimi e facce trasfigurate, ma riconoscibili al pubblico, mettendoli – così si diceva ai tempi – alla berlina). Ah, glie ne dice di tutti i colori! La sua agente sta già vendendo il libro negli States, lui è convinto che sarà il suo successo internazionale. E si prepara a godere dello status di artista premiato in patria: grande appoggio da parte delle istituzioni, anche soldini, programmi per residenze all’estero: mi parla di Pechino!

Troy Chin è il prototipo dell’artista d’antan, disadattato in una realtà di normalità malata come è quella di questo piccolo villaggio di provincia: certo sono cinque milioni di abitanti (attenzione: i residenti veri, al netto di expat d’occidente e immigrati poveri, superano di poco i tre), ma è come se tutti, qui, si conoscessero: stesse scuole per chi viene dallo stesso quartiere, stesse università per chi ha la stessa professione, quindi un continuo misurarsi l’un altro, con lo status a farla da padrone, la tua macchina, la tua casa, la moglie più o meno bella: una specie di mondo chiuso, un acquario per formichine dirette dall’alto, la cui esistenza viene programmata con meticolosità (mi han detto: negli anni settanta ottanta si costruivano i quartieri popolari, a tutti un alloggio decente, ora li abbattono per costruire i nuovi condo: il progetto è: a ciascuno una sua piscina condominiale. Il carburante finanziario del progetto sono i peggio capitali in circolazione, tutti attirati dai vantaggi fiscali e legali nella pattumiera Singapore).

(In questa nuova Singapore che i Leader hanno deciso di vendere sul mercato internazionale del turismo si costruiscono alberghi dalle forme assurde, musei a forma di fior di loto, lucine colorate da tutte le parti – soprattutto: due casinò enormi – e ora i Gardens by the Bay. Impressionante e immaginifica la visita notturna, il parco è disseminato di altissimi alberi di metallo le cui strutture sono ricoperte di rampicanti: ogni megaalbero riluce di un colore diverso – per carità: impatto ambientale zero – alcuni sono collegati da passerelle spaziali: è l’estetica tecnogreen di Avatar, metà fantascienza anni ’50 metà ritorno alla natura. Se ti fermi alla base degli alberissimi illuminati e guardi in su ti senti una formichina: le formichine di Singapore, casa metrò ufficio metro televisione/internet. Ma è pazzesco questo posto, così banale da sfidare ogni possibile racconto: Troy Chin riesce nell’impresa: non è mai banale: racconta un malessere profondo – e qualcuno si domanda se non sia Singapore il progetto sociale della nuova Asia, o quanto meno ne sia il benchmark).

Insomma Troy, oggi, dentro alla solita struttura coperta (ce n’è una per quartiere) che ingloba i vecchi mercati con le bancarelle degli hawkers (cibo da strada, oggi più raffinato e il tutto organizzato come un self service multiplo), appare un artista felice, soddisfatto – con una distonia leggera, a tratti l’euforia un po’ troppo tirata lascia trasparire una mancanza di convinzione, tre quattro volte gli vedo un tic facciale saltar fuori a ricordargli le proprie verità: e io in effetti fatico un po’ a seguirlo su questa strada di esaltazione un po’ nevrotica: ma glielo perdono. Gli perdonerei qualunque cosa, a Troy Chin). E il futuro che sta costruendosi, raggiunta la notorietà come artista (gli hanno commissinato un progetto di arredo urbano) e graphic novelist, è paradossale: voglio tornare alla musica, dice. Voglio mettere su una rock band. Euforia, nessun senso del limite, una buona dose di incoscienza e megalomania. Con quel tocco di ingenuità che redime.

Il punto è uno e uno solo: la sua arte è riconosciuta: e questa è una vittoria che sa pacificare (tornerà da lui la fidanzata  che fuggì un tempo, affascinata da sogni di carriera? O ce n’è un’altra?). Me ne sento pacificato anch’io: posso dire di essere un tifoso, un vero e proprio fan di questo giovane artista, e davvero ci voleva, un tipo così, nella tremenda e fascinosa Singapore.

(Certo è difficile poi capire, perché, sotto una pioggia battente, noi si debba tornare verso il centro in bus, bagnati fradici dopo la corsa verso la pensilina, piuttosto che prendere il metrò che in quattro fermate ci portava a destinazione. Sono idiosincrasie: antidoti).

Pensierino della sera: questo signore mi rende la stessa impressione di altri scrittori asiatici: Han Han, la ragazzina Yan Ge, il manager scrittore erotico Feng Tang: che siano gente che fa di sé stessi un oggetto artistico: come se la loro vita non foss’altro che una lunga performance multimediale. Vedo un’estetica guidare le loro scelte e i termini di comunicazione con il mondo esterno. E in società – civiltà, davvero – così incardinate a una sensibilità del collettivo, dell’appartenenza (forse perché le loro religioni laiche o politeiste non hanno sottolineato, come è da noi, responsabilità individuali e scelte singole, singolari), appartenenza alla società stessa o al creato intero, ecco che l’artista più facilmente trova una congruenza (paradosso) tra sé stesso e il fluire del mondo, tra la sua estetica e quella che noi chiamiamo etica.


Categoria: Singapore



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