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Un’intervista con Zhu Wen

Non è quel che prediligo, ma prima o poi ho bisogno di inchiodarle a una sedia davanti a me, queste persone.

Zhu Wen, dunque: stralci da un’intervista. Appunti, e parole sue, in viva voce. Ma come posso renderle con chiarezza? Le frasi in un inglese approssimativo, tradotte in italiano: difficile rendere un’intonazione, una sua personale cantilena. Vedo che me ne vengon fuori frasi un po’ afone: ma tant’è.

Non studiava letteratura, a Nanchino, nella seconda metà dei loro dorati anni ottanta, promessa di riforme, di maggiore libertà, di vento nuovo. Studiava ingegneria. La famiglia lo aveva infilato in quella facoltà, quasi come un irreggimentazione. Fin da bambino pieno di talento e dunque testa calda: state attenti, dicono gli insegnanti ai suoi genitori. Sa pensare con la sua testa, sa usare le sue parole, si esprime bene ed è sempre il migliore quando scrive articoletti per il giornale della scuola. “I miei genitori, negli anni delle superiori, mi tenevano d’occhio: e dunque ingegneria, via maestra a un lavoro buono, ben pagato, stabile.”

Genitori in difficoltà, i suoi: un pezzo della sua famiglia, cugini, zii, son già espatriati da un pezzo. Perché sono di Quanzhou, di fronte a Taiwan (“Quanzhou, il capolinea oceanico del viaggio di Marco Polo”, mi dice Zhu Wen). E quindi vien facile scappare dalla Cina comunista, andare a cercar fortuna: e i suoi genitori, parenti stretti di cotanti reazionari, vengono messi sotto sorveglianza.

“Durante la rivoluzione culturale una situazione del genere poteva essere pericolosa. Di fronte a Taipei, ci pensi? I miei vengono immediatamente mandati in campagna. Per loro un’umiliazione, ma io ero contentissimo di essere in un villaggio: la mia infanzia è stato un gran bel periodo. E’ lì che sono diventato un po’ selvaggio.”

E ingegneria, con queste premesse, cosa significa per lui?

“Che comincio a scrivere poesia. Diari. Per reazione a quella scelta forzata. Come una vita segreta, notturna. Ma non mi dimenticavo l’università: studiavo tanto, sono diventato un buon ingegnere, mi è sempre piaciuto il lavoro duro: I was devoted,” in inglese: dedicato. Allo studio, al lavoro, a tutto quel che fa: ingegnere di giorno, poeta la notte.

“Sono stato fortunato a capire che potevo esprimermi scrivendo. Ma non lo dicevo a nessuno.” Quando, una volta laureato, lo assumono in una centrale termoelettrica, a lui sorprendentemente piace: “Non frequentavo i quadri, ma gli operai.” They speak brave, mi dice Zhu Wen. “Ci tenevo a essere membro di quella working class di cui tu, Andrea, hai raccontato nel tuo libro.” (Gli ho parlato molto di un libro mio, storia operaia italiana anni cinquanta.) E poi, fantastico: io volevo essere membro di quella working class: “Non mi piacciono gli intelligenti,” afferma stentoreo Zhu Wen.

(Leggete, gente, leggete le storie di Zhu Wen, e vedrete che c’è dentro in pieno, tutto questo suo mondo).

Ma intanto, da poeta, qualche attenzione l’aveva suscitata. Fin dall’università: si vive in camerata, i compagni ti vedono che passi la notte a scrivere. La voce corre: e un giorno si presenta da lui Wu Chenjun: un tipo silenzioso, chiuso, piccolino: “Nessuno poteva mai pensare che saremmo diventati amici.”

Wu Chenjun è già famoso in università: giovanissimo, è nel gruppo di scrittori che pubblica “Tamen”, loro:  Una rivista illegale, ci tiene a sottolineare Zhu Wen: “Potevi essere arrestato.”  Una rivista che però riesce a prosperare nel clima di relativa apertura dei quegli anni. “Ma non c’era spazio per un’editoria indipendente, le case editrici erano – e sono ancora, anche indirettamente – controllate dallo stato”. Sono anni grandi, anni importanti: Zhu Wen conosce Han Dong, il più anziano del gruppo. E’ lì che nasce l’amicizia con Ou Ning, è lì che incrocia nomi già affermati, come Su Tong.

(Gli anni ottanta avranno bisogno di un capitolo a parte: mettere insieme le voci di questi reduci, di questi ex ragazzi che crescevano in una specie di sessantotto in salsa cinese fatto di discussioni infinite su ogni possibile testo di letteratura, d’arte e di filosofia, oltre che di bevute e cameratismo). Della rivista uscirono quattro o cinque numeri. E poi arrivò l’89. Piazza Tien an Men, la repressione, la fine di tutto.

“L’89 è stato la cosa più importante della nostra vita.”

Non solo lui l’ha detto, nessuno finora lo ha scritto: l’89 è censurato, non esiste, tema sensibile che gli scrittori si trovano davanti come un macigno: come si può fare letteratura dopo piazza Tien an Men, potrebbe essere la domanda. Ma è peggio: come si fa a fare letteratura se Tien an Men bisogna negarla, cancellarla: la cosa più importante della nostra vita. E la logica di cancellazione si incista, dura come un diamante, dentro alla vitalità creativa e all’immaginazione dello scrittore.

(Un flash: non sarà per questo, per la cancellazione successiva dei nostri anni sessantottini – intendo: cancellazione del vero – che la mia generazione non ha prodotto granchè, di letterario? Ma andiamo avanti con Zhu Wen).

Per Zhu Wen l’89 ha un decorso in verità molto naturale: lo spavento, il silenzio autoimposto dopo quei giorni di giugno, vengono frantumati dalla realtà: a luglio discute la sua tesi di laurea, ne esce a pieni voti: è fortunato: poco fuori città è in costruzione una centrale termoelettrica, viene assunto di filata e partecipa al processo di costruzione dell’impianto che per lui (per loro, dirigenti e working class) è destinato a divenire l’impiego di una vita.

Gli piace, tantissimo. “Stavo con gli operai: fighting, drinking. Sharp speaking.” Day and night: di notte scrive, in gran segreto (lo avrebbero preso in giro): “ma la poesia è PURA”. La fabbrica è sull’altro lato del fiume, rispetto al centro di Nanchino, lui alloggia in dormitorio: work and write, day and night.

La poesia è purezza: me lo sentirò ripetere più volte, nel corso di questa intervista e di molte altre chiacchierate. E’ lì che alberga Zhu Wen: è la sua tana e la sua declinazione più autentica. E ci tiene a riaffermarlo, a ricordarlo.

Nel weekend prende il bus, attraversa il ponte e torna in città: va a trovare i poeti: momenti bui, per la libertà di espressione. Per le notizie di amici di Pechino arrestati, scomparsi. Eppure lui ricorda un tempo felice: “La costruivamo noi, la centrale. In cinque anni. Eravamo orgogliosi e felici di costruirla.” A poco a poco, mentre i primi moduli entravano in funzione, loro insegnavano il lavoro ai nuovi arrivati, più giovani. A forza di attraversare il ponte in autobus, nei fine settimana, convince Han Dong (siamo nel ’91) che la rivista deve andare avanti: la fanno ripartire loro due, dentro a una sensazione di pericolo costante. Ma riescono ancora a attrarre firme importanti, non solo Su Tong: pubblicano un pezzo breve di Mo Yan, mi dice.

E poi, il primo showdown: sarà una costante nella vita di Zhu Wen. La centrale è pronta, il suo salario aumenterà, si tratta di cominciare una vita serena e confortevole, da quadro di fabbrica, fino alla vecchiaia. Zhu Wen va dal direttore, chiede un colloquio. Entra, si siede davanti alla scrivania e gli dice: voglio andarmene. Il direttore strabuzza gli occhi. “I want to quit,” dice Zhu Wen.

“Era una cosa rarissima. Non si capiva come una persona potesse lasciare l’impiego, ed essere poi self employed, guadagnando del suo. Pensano: non sei contento del salario? No, è che ho deciso: basta con il lavoro. Non voglio lavorare mai più.” Ma cosa pensi di fare?, chiede il direttore. “Io rispondo: scrivere poesia.”

“E’ un bello strappo. Troppo romantico, certo. Poi è stato difficile: pagare l’affitto, procurarmi da mangiare.” E dopo pochi mesi decide allora di provare a scrivere narrativa: almeno si guadagna, ti pubblicano le riviste. “Mi piaceva. Pagavano poco, ma ce la facevo, Certo, è cominciato come un dovere – e lo dice con un rifiuto evidente – eppure scrivere mi rendeva felice. Anche con la narrativa. Capisci di più – self conscious, in inglese – sai di più della tua vita.”

“Ed ero anche piuttosto timido, con gli editori delle riviste: così diventavo arrogante, la comunicazione non era facile. Mi aiutavano gli altri poeti, andavano a parlare con i redattori al posto mio: e quando un amico entrava in una redazione importante, si portava dietro Zhu Wen.

Riunisce i racconti in raccolte, le case editrici le pubblicano. Va avanti così sei anni.

Poi scrive il famoso manifesto: Duanlie, rottura. E’ un questionario che i redattori di Tamen (sopratutto farina del sacco di Zhu Wen) mandano a una settantina di scrittori. Non sono importanti le risposte, ma le tredici domande, che suggeriscono sarcasticamente la inutilità delle Associazioni degli Scrittori, l’asservimento dei critici al potere, la mancanza di una scuola, la pochezza di molti nomi in voga in quegli anni. E’ una denuncia della censura. La tredicesima e ultima domanda recita: pensi che una persona vestita completamente di verde somigli a un bruco? Siamo in pieno Zhu Wen scrittore, qui: la voce narrante di Duanlie è la stessa dei suoi racconti. Sarcastica, disincantata, incazzata e mai doma.

Quel che non viene detto dai commentatori (che studiano e riferiscono del manifesto come di uno dei punti fermi della critica letteraria di quegli anni), probabilmente perché non lo sanno, è quel che mi rivela oggi Zhu Wen: “Non pensavo di ottenere niente di particolare. Ero solo stufo. Ero stufo della censura, del boicottaggio di stato. Il titolo ‘Rottura’, indicava la mia, di rottura con quel periodo”.

La decisione di piantarla lì: “I quit!”

Sì: un’altra volta; decide di smettere di scrivere narrativa.

“Mandavo i racconti alle riviste, il titolo era pericoloso e lo cambiavano. Toglievano capoversi interi, arrivavano a modificarmi le frasi, senza dirmelo. Io me ne accorgevo a cose fatte: telefonavo furioso: rispondevano: è la censura, non possiamo fare altrimenti: I quit!”

In realtà questa volta ha una strada da percorrere: gli hanno già chiesto di lavorare per il cinema, collabora a due sceneggiature. Immagino si senta più libero, il lavoro di costruzione di un film comporta comunque un compromesso tra le varie figure coinvolte, e lui l’accetta, diventa accomodante: il risultato finale non è suo, non ha bisogno di riconoscersi. E certo – questo l’aggiungo io – ha già passato i trentanni. E, come ha sempre ammesso lui, il cinema paga: altro che riviste letterarie.

Non so se a questo ultimo decennio abbondante di lavoro nel cinema abbia poi corrisposto un ritorno al ‘day and night, work and write’. Zhu Wen, oggi, viene invitato spesso a reading di poesia, e non so quanto recente (e glielo chiederò, certo). Ma lui afferma deciso: “I did it: I stopped writing!”

Queste ultime frasi, nell’intervista a Zhu Wen, inizialmente non sono del tutto coerenti: è chiaro che c’è un dolore, nello smettere di scrivere. Ed è difficile esprimerlo in un inglese semplificato come il suo.

Da un lato: “Ci tenevo tantissimo, a essere membro della società letteraria.” Poi: “a essere parte di qualcosa.”

Dall’altro: “Quando mi trattano come uno scrittore, come se facessi parte del gruppo dei più vecchi – vuole dire: gli scrittori di regime: intende anche Mo Yan, lo so – io rispondo di no.” Deciso: “Non voglio far parte di quel mondo.” Di più: “Essere uno scrittore significa essere liberi, e essere dei combattenti.”

“Dentro a quei limiti non potevo essere uno scrittore. Forse ero troppo giovane. Poco professionale. Ma scrivere non è una professione: scrivere è importante, è il modo in cui tu comunichi con il tuo cuore: io non voglio essere professionale.” Il tutto detto alla Zhu Wen: come parla lui, non come scrive: quindi sereno, tranquillo, senza enfasi, tono uniforme: come se la vita fosse semplice.

Io invidio molti amici, dice: che sanno essere professionali e di successo. Io provo solo delusione.

Su questo, mi dice che deve andare, ora: l’intervista finisce qui.


Categoria: Cina



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