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Diario Pechinese: Liu Zhenyun

Ho finito il mio libro, l’ho impacchettato e spedito a un agente. Non è una notizia, lo so. La notizia è che ora posso tornare a scrivere con regolarità su questo blog, su Doppiozero, e su altri che dirò più avanti. Qui, forse, vale la pena di ricominciare a dare quelche notizia sparsa, incontri, facce, parole, senza dilungarsi troppo. Un diario, insomma.

L’altra sera, cena con Liu Zhenyun, autore di cui Patrizia Liberati (traduttrice di MoYan) consegnerà tra poco a Metropoli d’Asia un romanzo – non anticipo niente, restiamo nel vago e teniamo la suspence -.  Ma intanto, mi godo un invito a cena. Nella solita, piacevole atmosfera conviviale. C’è la sua editor cinese, certo, Zhang Wei di Changliang, casa editrice importante a Pechino, che parla inglese ma si tiene in disparte, quasi astraendosi dalla conversazione con la testa tuffata – come fanno sempre i più giovani a Pechino – nello smartphone.

Anche qui va di gran moda una cosa locale tipo What’sApp, credo si chiami WeiboSin. La vedo scuotere il telefonino prima dell’uso, e – non ne sapevo niente – mi spiegano che serve a entrare in contatto con altri utenti connessi nel raggio di un centinaio di metri. In sostanza la giovane editor piuttosto che ascoltare la nostra conversazione – i nostri scherzi più che altro: Liu Zhenyun parla solo cinese e Patrizia traduce il mio italiano – cerca compari con in quali scambiarsi qualche messaggetto sulla qualità del cibo o del servizio al ristorante.

Per fortuna c’è Giada, la figlia diciannovenne di Patrizia, che in italiano mi spiega come i cinesi stiano diventando matti per lo smartphone: e io, come un ciuccio, non so dirle niente di ciò che accade in Italia: non ne ho la minima idea, un po’ perché son lontano da parecchio, un po’ perché son modalità relazionali da cui i miei figli restano lontani: e fanno bene, secondo Giada, che non apprezza per nulla di essere forzatamente inclusa nel gruppo chat delle sue amiche, gruppo che è lo strumento attraverso il quale i suoi docenti comunicano compiti a casa, variazioni d’orario, prove in classe: quindi Giada al mattino, si alza, accende lo strumento, e deve sorbirsi lunghi minuti di commenti sui tacchi di questa o quest’altra per sapere quali libri deve portare in classe quel giorno. Giada è sveglia, simpatica, gioca con Liu Zhenyun. E ha dei lineamenti molto paritcolari, occhi e naso cinese su un viso largo da romana, innestato su un accento romano che la rende esotica. Suo padre è con noi, molto cool, non nel senso di alla moda ma nel senso che si mostra sereno e tranquillo, interviene poco e sorride.

Liu Zhenyun è il contrario di quel che mi aspetto da un autore che usa la comicità come strumento per raccontare vite di disadattati, emigrati in città, vittime dei soprusi di una giustizia corrotta, e giudici corrotti, o semplicemente e in modo più diretto le vittime di una carestia decenni orsono. La sua comicità è vastamente descritta, si dice che i suoi discorsi pubblici siano accolti da scrosci di risate frequenti, il Global Times racconta di un suo copanelist che sentendolo parlare venne preso da una crisi di riso al limite della psicosi: dovettero portarlo via a braccia, quasi.

Ma Liu Zhenyun, seduto al solito grande tavolo rotondo dove le pietanze ci passano sotto il naso sulla piattaforma girevole, bevendo – sorpresa – vino francese e non il solito distillato locle, è pure lui sorprendentemente cool: sempre sorridente, esibisce qualche battuta o qualche aneddoto che non ci fa ridere a crepapelle ma solo sorridere, eppure a me pare restare trincerato dentro a un suo mondo. E’ il classico comico timido – è la stessa sensazione di quando si incontrano gli Albanese o gli Aldo Giovanni e Giacomo in Italia: i comici sono timidi – anche se aperto. Mi spiega come il suo desiderio di scrivere – che però non sono riuscito a datare esattamente: lui si è fatto cinque anni da militare nel deserto, solo dopo ha superato un test di ammissione alla facolta di Lettere – nasca dalla voglia di raccontare il punto di vista di persone che di solito non sono prese in considerazione da noi: la persona che spazza la strada tutte le mattine, l’autista del taxi.

Dice Liu Zhenyun: quando scrivo io non sono me stesso: non è la mia voce che voglio imporre al lettore. Io sento dentro la mia testa la voce di altri, che pronunciano le loro parole, e le metto sulla carta. Non sono uno scrittore che parla, sono uno scrittore che ascolta. E ci invita a casa sua, nello Henan: un weekend di marzo, tutti insieme, c’è il bullet train che ci arriva in due ore. Un sabato e domenica fuori porta, in campagna, nella poverissima campagna dell’Henan che è la sua patria: anche se lui no, lui ama scrivere delle città.

E intanto il ghiaccio è rotto, il mio diario da Pechino ricomincia a camminare, le incrostazioni si sciolgono. Anche a me piace far parlare gli altri, bisogna che ricominci a sentirne le voci: ma dal vivo, magari a tavola, magari un distillato di granaglie la prossima volta, niente vini francesi. E gli ambienti: qui, usciti dall’ascensore il ristorante era un lungo corridoio sul quale si affacciano le porte, chiuse, delle sale da pranzo: un bel settanta ottanta metri quadri, il tavolo al centro, un angolo di divani e poltrone ampi, comodi – kithch: velluti blu su strutture neoclassiche argentate, e i soliti lampadari a goccia (gocce) – un bagno privato con tanto di doccia, e camerieri pieni d’ossequio come butlers. Gli ospiti ci possono restare ore, alzarsi da tavola e stendesri sui divano, passarci il tempo. Giacchè, quando si sta tra amici, non c’è mai fretta, e ci sono anche dei tempi di silenzio, e chi vuole si assenta.

Adesso però c’è whatsapp.

Va be’, andremo nell’Henan, magari lì non prende.


Categoria: Cina



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