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Le lingue e le logiche: i commenti al post

La puntata precedente di questo post ha ricevuto alcune risposte, inviate via mail (sarebbe più utile un commento diretto al post sul blog, ma forse è faticoso l’ingresso). Ne riporto qui tre, integralmente (stralciando i “Caro Berrini ecc..”). Mi sembrano le più complete. Concluderò con un appunto mio, e un invito a continuare la discussione.

Scrive Gabriele Battaglia, giornalista di stanza a Pechino, membro dell’agenzia China-Files:

Non sono un sinologo, ma alla fine mi guardo indietro e vedo che questa lingua, tra alti e bassi, la “pratico” da una decina di anni. Per quello che ne so, l’affiancamento di caratteri, cioè “immagini”, fa sì che i cinesi vedano ogni testo scritto come una specie di quadro di cui colgono il senso complessivo, non la complessità analitica. E anche nel parlato, la lingua è molto “contestualizzata”, perché dato che ci sono molte omofonie è importante che si sappia già più o meno di che cosa si sta parlando, altrimenti capisci Roma per toma. Il che ci rimanda a una visione del mondo in cui ogni essere ha senso in quanto inserito in un contesto, non di per sé.

Dopo di che, i caratteri/immagini, a differenza delle nostre lettere fonetiche, sono più potenti e vivono di una vita propria per cui si relazionano tra loro, creano nuovi significati, “scivolano”. Così l’uso di quel carattere specifico piuttosto di quell’altro in una frase rimanda a tutta una serie di significati simbolici, storici, etc, che a noi sfuggono totalmente.

Sono d’accordo sul fatto che ignorino completamente la logica aristotelica, che è una cosa tipicamente “nostra”. Per i cinesi ad esempio il principio di contraddizione non è così definito, del resto lo yin e lo yang non sono opposti ma si compenetrano. Non sono così d’accordo sulla lingua “emotiva”, in realtà è molto razionale.

Poi Marco Ceresa Professore di Letteratura Cinese e Studi Culturali sull’Asia Orientale presso l’Università Ca’ Foscari Venezia.

No, non sono d’accordo con il tuo amico expat. Nessun linguista lo sarebbe. Il cinese, sia moderno che classico, ha le preposizioni. Che magari chiamiamo ‘particelle’, ma sono preposizioni. Che poi queste preposizioni fossero all’origine verbi esse stesse, o che possano anche funzionare come tali, è un’altra questione. Ma dire che il cinese non ha preposizioni mi pare un po’ come dire, cosa che fanno in molti, ‘il cinese non ha grammatica’. Esistono le lingue senza grammatica?

Se vogliamo sottolineare delle caratteristiche della lingua cinese che possono più di altre avere una influenza sulla ‘mentalità’ (sempre che la questione possa essere formulata in modo così crudo), guarderei piuttosto all’assenza dei tempi, dei modi e delle persone del verbo, o del plurale e del singolare dei sostantivi. E, anche in questo caso, si tratta di una semplificazione: tempi, modi, persone, singolare e plurale si possono esprimere, ma non modificando graficamente o foneticamente il verbo o il sostantivo, che sono dei piccoli blocchi inalterabili. Si devono invece aggiungere altri elementi nella frase. Insomma, è tutto un po’ più complesso.

Sulla questione dei tempi verbali aggiunti dai traduttori: non è proprio così. I traduttori aggiungono i tempi nel senso che scelgono il passato remoto al posto dell’imperfetto o del trapassato etc., ma non trasformano il futuro in passato o viceversa, perché il testo fornisce quasi sempre chiare indicazioni del fatto che l’azione espressa dal verbo sia compiuta, ancora da compiere etc. E non è una questione di contesto, bensì della presenza di precisi elementi grammaticali, che accompagnano e modificano il verbo, anche se non ne intaccano l’aspetto grafico o fonetico. Addirittura il cinese arriva ad esprimere la direzione dell’azione, verso l’alto, verso il basso, verso dentro, verso fuori. Altro che lingua vaga e imprecisa.

Quanto al sillogismo tout court. Nella tradizione filosofica cinese esiste una scuola detta nominalista, che si dilettava di giochetti linguistici come ‘un cavallo bianco non è un cavallo’, in cui la bianchezza prevale sulla cavallinità. Come dire ‘un uomo mortale non è un uomo’. Logica opinabile ma logicamente costruita. Quanto al sillogismo aristotelico credo che con un po’ di pazienza potrei trovare degli esempi linguisticamente inoppugnabili. Si può tradurre tutto, Kant, Hegel, persino Derrida. Certo, bisogna smontare e rimontare, ma il significato alla fine è tutto lì. Si perde lo stile, quello sì. E qui temo che non ci sia nulla da fare.

Infine Paolo Maganin, docente di lingua cinese e traduttore di narrativa cinese contemporanea (per Metropoli d’Asia ha tradotto Se non è Amore Vero allora è Spazzatura, di Zhu Wen).

Quello della logica delle lingue è un problema che mi ha sempre intrigato come sinologo (o eterno aspirante tale), studioso di translation studies, e ovviamente traduttore. Non appena ho letto il post mi sono immediatamente tornate alla memoria le mie personali conversazioni con editor con cui mi sono trovato a collaborare, nonché quelle riportatemi da amici e colleghi traduttori a proposito dei loro rapporti con le case editrici. In queste conversazioni sono emerse spesso, da parte di alcuni rappresentanti del mondo dell’editoria, osservazioni del tipo “la lingua cinese segue una logica talmente unica e peculiare che il testo va spesso stravolto per ricondurlo alla logica italiana”, fino a “quando scrivono, i cinesi non fanno nessun tipo di editing, perciò sta a noi farlo, tagliando o risistemando quello che ‘non gira’”. 

È innegabile che da alcune di queste affermazioni traspare un atteggiamento un po’ paternalistico e a volte quasi colonialistico (in quanto asseriti eredi e depositari della “vera” logica, quella aristotelica, saremmo autorizzati a imporla ai “cinesini” che, poverini, non hanno avuto la fortuna di svilupparla), e ci sarebbe molto da dire sulle politiche editoriali di alcune case, solitamente le più grandi e affermate, che stravolgono dove possibile pur di rendere un testo il più “leggibile” e “naturale” possibile (nessuno nega la necessità del piacere della lettura, ma così facendo si dimostra di avere un’idea del lettore come pigro e incapace di uscire dai propri angusti schemi logici). Ma questo è un discorso complesso che meriterebbe di essere discusso in altra sede…

Tornando al problema della “logica innata” della lingua, però, non posso fare che alcune osservazioni sparse. Per esempio, senza arrivare al punto di affermare che la pensiamo in modo completamente diverso – le dicotomie e il mito dell’alterità incolmabile alla Jullien mi hanno sempre lasciato perplesso – alcune “differenze” tra cinese e italiano nel modo di usare la lingua, di organizzare le informazioni, di strutturare il flusso del pensiero ci sono. 

Per esempio, la lingua cinese si affida molto di più al contesto (verbale se si parla di un testo, situazionale se si parla di una conversazione), e questo fa sì che molte informazioni che l’italiano ritiene indispensabili (e che convoglia attraverso il lessico o la morfologia) vengano invece tralasciate, o al massimo fornite nel caso in cui sia assolutamente necessario risolvere un’ambiguità: così per i pronomi, per esempio, o per i soggetti dei verbi (questi ultimi, poi, rimangono regolarmente invariati), ecc. Il guaio è che questa grande elasticità spesso crea difficoltà di interpretazione a chi non abbia dimestichezza con l’uso vivo del cinese, quando non viene vista come una prova ulteriore della natura “primitiva” della lingua. 

A un livello superiore, quello dell’organizzazione delle frasi, dei testi e in generale del “pensiero”, è interessante come spesso il semplice accostamento di frasi separate da una semplice virgola, e la conseguente mancanza di connettivi che esplicitano nessi logici (e che in italiano sembrano indispensabili per un “corretto scrivere”), in cinese siano praticamente la regola. A questo punto verrebbe da dire che sta al lettore o all’ascoltatore cinese capire se il nesso sottinteso è di tipo causale, concessivo, temporale, ecc., ma la realtà è che… nessun lettore o ascoltatore cinese si pone il problema di capire la natura del nesso, se si tratti di una situazione reale o di una semplice supposizione, ecc.

Semmai sono i non-cinesi che ci si arrovellano… E così l’italiano (ma un qualunque europeo o americano) si chiede se una frase che in cinese suona come “uscire, comprare giornale” sia “quando esci prendi il giornale” o “quando esco prendo il giornale”, “se esci prendi il giornale” o “se esco prendo il giornale”, “se uscissi prenderei il giornale” e via dicendo. Quello che per “noi” è un messaggio incompleto, rozzo e ambiguo in realtà viene percepito generalmente come chiaro e completo da un parlante cinese perché quest’ultimo fa affidamento, molto più di quanto non lo faccia un italiano, su un insieme di elementi che attengono al contesto in cui viene emesso l’enunciato, nonché a elementi di natura logica. Non si tratta quindi del “rigido” sistema aristotelico, bensì di un quadro di pensiero più ampio. 

Spero che queste osservazioni, benché disordinate, abbiano contribuito almeno un po’ a gettare luce su qualche aspetto del problema.

Tre voci diverse, che riapparecchiano i termini del discorso. Dove io avevo cominciato con un’opinione buttata lì e da me ascoltata in modo distratto, ecco che le tematiche si affinano.

In qualche caso si affilano. Sembrano coltellate le osservazioni di Magagnin sul neocolonialismo degli editori: e in gran parte le condivido, perché è sempre dietro l’angolo quel ‘noi, e loro’ che ci impantana: la pretesa, nel momento del confronto, di affermare una nostra superiorità . Ma io in realtà suggerivo il contrario: che una lingua che “scivola” (Battaglia), che presenta “differenze… nel modo di organizzare le informazioni, di strutturare il flusso di pensiero” (Magagnin), possa perfino essere più contigua al parlato comune così come si sta formando in Occidente e in Italia: banalizzando, quando ci lamentiamo che perfino i giornalisti non sanno più usare i congiuntivi… beh, ecco una lingua che semplifica i tempi verbali, e lascia che la comprensione di una frase emerga dal contesto: forse è quel che inconsapevolmente cerchiamo noi, semplificando l’italiano.

Ceresa, al contrario di Battaglia e Magagnin, concede poco: ma allora io fatico a inquadrare le difficoltà spesso presentateci dai traduttori, da chi in qualche caso parla di una vera e propria riscrittura del testo. Quello che Ceresa stesso afferma nella sua frase finale: “Certo, bisogna smontare e rimontare, ma il significato alla fine è tutto lì. Si perde lo stile, quello sì. E qui temo che non ci sia nulla da fare.”

Io una cosa la farei: continuerei a discuterne, perché è interessante, perché la Cina sarà il nostro specchio nei prossimi anni: mettendo in discussione la nostra autoreferenzialità. Accompagnando, con la travolgente trasformazione del loro mondo, una necessaria trasformazione del nostro.

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Categoria: Cina



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