In diretta dall'Asia

Lijia Zhang, operaia, oxfordiana, scrittrice e giornalista

Dalla fabbrica viene Lijia Zhang. La fabbrica cinese che arriva sulle pagine dei nostri giornali come topos del millennio, se non come puro elemento drammaturgico. Quella dove la nostra industria ha delocalizzato e da cui, sembra, sta ora muovendo per altri lidi. Lijia fu operaia: fabbricava – così mi si descrive e si descrive nel suo Il Socialismo è Grande (Cooper Edizioni) che è passato come una meteora per le librerie italiane un tre anni fa – missili intercontinentali.

Non sono riuscito, devo ammetterlo, a farmi dire quale fosse la sua mansione specifica in fabbrica. Mi ha parlato di manutenzione, di direzione di linea: in ogni caso la giovane Zhang Lijia (perchè così si dice in cinese, prima il cognome di famiglia, e comunque sempre tutto pronunciato insieme, mai il nome da solo) aveva studiato fino ai sedici anni: capace dunque, intelligente, destinata a un posto da quadro e non da semplice operaia, posto che, come accadeva ai tempi, ereditò dalla madre.

I tempi sono gli anni ottanta, anni di apertura, quando la Cina si scrollava di dosso la Rivoluzione Culturale e le riforme aprivano spiragli di libertà d’espressione, quanto meno la libertà di leggere i classici d’occidente: “Mi piaceva lavorare, ma la mia mansione mi lasciava un sacco di tempo. E ho imparato il gusto di leggere.” Jane Eyre di Charlotte Bronte: “E’ lì che si alza il livello delle mie aspettative: divento ribelle.” Parole, queste, pronunciate in un perfetto inglese oxfordiano, perchè è proprio in quel College che l’operaia Lijia (Laigia, pronunciano oggi le signore expat che lei frequenta a Pechino) finirà, con un marito britannico.

Mi faccio raccontare la sua storia, lei spesso mi interrompe dicendomi: ma allora non l’hai letto il mio libro, lì c’è tutto. Io obbietto: voglio sentirlo da te, voglio vederti pronunciare queste parole. (Con questa pronuncia, con questa gestualità con la quale intendi comunicare a me, e non solo a me, la tua duplice nazionalità, la tua patria incerta, il tuo status di scrittrice cinese che scrive assolutamente solo in inglese e che in Cina non è tradotta: non passerebbe la censura).

Voleva scrivere, studiava l’inglese, leggeva: non più solo il realismo socialista che passava il convento, o al massimo Dickens. Anche Tolstoj, e i Misty Poets, cinesi di quegli anni, un fenomeno letterario paragonabile per impatto alla scena punk londinese fine anni settanta: una società segreta, i cui adepti ricopiavano a mano le poesie dei loro compagni e le diffondevano. Gridi di protesta: e infatti li spedirono in esilio dopo pochi anni. Lijia in fabbrica si annoiava, e quando si avvicina il termine degli anni ottanta, ecco che è lei a organizzare dibattiti pubblici: politica – anche un po’ di letteratura – perchè gli operai diventavano curiosi, soffiava da Pechino un vento di riforma, c’era la voglia di migliorare le proprie condizioni di lavoro, di protestare.

Non ho nominato il luogo: Nanchino. Nan Jing, l’antica capitale del sud (Bei Jing. capitale del nord) un po’ in decadenza ma grande centro industriale e culturale – ci vado tra qualche settimana, a tirare le fila di un gruppo di poeti e scrittori che lì ha le sue radici: tra questi il mio amico Zhu Wen), Nanchino dove Lijia a suo dire diventa leader dei primi moti spontanei, cortei, comizi, che ricalcano l’occupazione di Piazza Tian an Men a Pechino, e che si spengono sotto l’inevitabile cappa di paura. Ora Lijia vuole andarsene, dalla fabbrica. Ha un’occasione, perchè nella Cina dell’opprimente controllo post ’89 la corruzione apre vie inaspettate: sua sorella conosceva qualcuno, che conosceva qualcuno. Ha un passaporto e può dunque girare per la Cina: va proprio a Pechino.

A Pechino il fuoco ormai era spento: anzi, tutto tacque per qualche anno, sotto un regime di terrore. Ma Lijia aveva una sua meta: il giovane inglese che aveva conosciuto nel’88, a margine di una gita di piacere (le fabbriche cinesi portano sempre in giro per il paese i loro dipendenti), durante la quale lei si era staccata dal gruppo con grande scorno dei capi, andando a zonzo per i locali frequentati dagli occidentali.

E’ semplice e onesta Lijia, nel modo in cui me la racconta: non mi dice mi ero innamorata, sono tornata a Pechino per cercarlo. Mi dice: lui mi piaceva, io ho sempre pensato di voler lasciare il paese, pensavo a andare in America, ma lui mi aveva parlato di portarmi in inghilterra. Hanno divorziato, poi, anche se le figlie sono spesso con lei in Cina: a Pechino, tra un master e l’altro negli States.

Ho un appunto, la prima frase che ha pronunciato durante un nostro incontro, quando mi sono presentato con carta e penna dicendo: è un’intervista. E’ la frase che ha scelto per aprire quel colloquio: dice, ero molto sola, in fabbrica. Leggevo.

Quando le riporto questa frase la butta via con un gesto. Intende dire: agli operai, maschi, non piaceva molto avere un capo donna. Eppure la solitudine feroce di Zhang Lijia, la sua autosufficienza, si legge nel modo in cui guida lo scooter che la porta da un lato all’altyro della città anche d’inverno, a meno dieci. Nella casa piccola e infilata dentro a una manciata di vecchie costruzioni popolari lungo un canale, lei dice: si vede l’acqua da casa mia, ma bisogna mettersi in piedi su una sedia per guardar fuori dalla finestrella in alto. Le figlie ci sono, sì, ma solo a tratti, Lijia è un’istituzione culturale e mondana, le amicizie sono prevalentemente occidentali (anglosassoni), collabora con il South China Morning Post e veine spesso chiamata dalla BBC: ha in casa la piccola postazione video, una webcam d’eccezione collegata a un Mac dal grande schermo.

Ha coraggio: ha voluto intervistare un dissidente famoso, cieco, costretto ai domiciliari, ma capace di imbarcarsi clandestinamente per Taiwan. La Cina è strana in questi anni, ci sono spazi d’apertura inattesa, ma si sta chiudendo. Lijia fa il suo slalom, dice quel che può, tace quel che deve, spesso da buca ai dibattiti dove è attesa perchè ha capito che quel giorno è meglio così.

Non ha relazioni con gli scrittori del suo paese. Ed è vero che non è un eccezzione: qui gli scrittori non si frequentano, non si cercano. ma lei è quella strana, che scrive in una lingua differente e frequenta gli expat occidentali. Qualcuno mugugna malevolo. Dice: ha scritto un memoir, e chisà quanto di vero c’era. Ed è facile farsi pubblicare all’estero un memoir che comincia con la fabbrica, i giorni di Piazza Tian an Men.

Lei risponde rivendicando il suo ruolo di corrispondente. Ammette che deve fare attenzione a quel che dice e scrive, ma che vuole correggre l’immagine che l’occidente ha della Cina, o almeno i suoi stereotipi, mostrare una voce dall’interrno. E poi, dice, sta scrivendo un romanzo.

Lo dice da anni, è l’obiezione di qualcuno, gettata lì con un’alzata di spalle. Sette, per la precisione.

“E’ un romanzo difficile. La protagonista è una prostituta, sto facendo delle ricerche, ne ho intervistate tante, in tutta la Cina.”

Romanzo impegnativo, rispondo, la ricerca può essere lunga. Ma perchè lo definisci difficile?

“Mia nonna, era una prostituta. Ho bisogno di indagare.”

Ne parleremo ancora, vero?

 


Categoria: Cina



Leave a Reply