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Cercare, trovare: “I wish”, risponde Yan Ge.

Bookworm Literary Festival di Pechino. Bravi, direi, nonostante la crisi dei loro sponsor (occidentali) abituali, e la pretesa (rispedita al mittente) di eventuali sposnor cinesi di dettare la linea (solo autori allineati), in questo tempio dell’expat acculturato anglosassone sono riusciti a mettere insieme una pattuglia di nomi abbastanza equilibrata, con pochi scrittori cinesi di rango: un veloce passaggio di Yan Lianke, un bel gruppo di donne, con Hong Ying e Lijia Zhang, il blogger Michael Anti, e la mia giovanissima Yan Ge.

Dico mia, perchè già ne ho parlato, dopo lunghe chiacchierate e belle passeggiate per le strade della sua Chengdu qui, e poi qui.

Un panel stranissimo, lei a confronto con una autrice ceca, Petra Hulòva, che denuncia in modo evidente una sofferenza personale (si dichiara scappata dalla propria famiglia implosa in patria) sovrapposta all’oggetto della sua ricerca e del suo romanzo scritto in prima persona: le donne mongole, e la loro sofferenza di donne povere, al limite e oltre il limite della violenza fisica. Come fosse lei, una donna mongola povera.

Yan Ge, come già scritto nei post precedenti, appare l’opposto: famiglia di ceto medio molto intellettualizzata (insegnanti, poeti, critici letterari), studi approfonditi negli USA, un Phd a Chengdu, e una collana di romanzetti per adolescenti (lei vinse un premio a diciassette anni, da lì cominciò una tipica carriera da adolescente prodigio e fabbrica di soldi per gli editori), per la quale la famiglia è sopratutto la fonte di una pressione continua (è figlia unica, da politica cinese): hai scritto, hai prodotto, hai studiato? La pressione si somma a quella degli editori e lei, a venticinque anni, avendo alle spalle un paper importante sulla letteratura migrante per la Duke University in South Carolina, un Phd su autori classici della tradizione Sichuanese, ha la perfetta coscienza di sè di chi sa che per scrivere un romanzo vero, uno buono, avrebbe bisogno di essere lasciata in pace almeno un paio d’anni.

(E, dettaglio non secondario, oggi ha abbandonato quella maschera manga, quegli occhi innaturalmente allargati nella realtà e nelle immagini di sè che metteva in circolo, vedi post precedenti).

Insomma, da un lato del moderatore una maschera letteraria di sofferenza e inteirorità, dall’altra una ragazzina impertinente (tipo: mi hanno consigliato di ubriacarmi sempre prima di partecipare ai dibattiti), che ci descrive in modo aperto la futilità delle sue scritture e di pezzi della sua vita, ma poi sa regalarci riflessioni importanti sul tema: perchè sono uno scrittore.

E ne risultano degli sguardi di intesa tra le due donne che tagliano fuori l’accademico anglosassone che modera l’incontro: una serie di uno due al corpo (tutt’e due le donne cominciano a giocare con un: la domanda che mi fa è irrilevante e non rispondo, invece voglio dire che…). E ne vien fuori una cosetta bella vivace.

E allora torna alla mente la domanda di Zhu Wen al sottoscritto: ma cosa vai cercando?

Dice con semplicità Yan Ge, davanti allo sguardo di conferma di Petra Hulòva: mi muove un desiderio. Il desiderio di essere qualcun altro. Di essere una bambina orfana, di essere una prostituta (!), di essere nata in Africa. E allora costruisce il suo protagonista e ci si infila dentro. Un po’ – penso – come faccio io che descrivo gli altri con le mie ‘narrative non fiction’. Io che descrivo Yan Ge.

Il desiderio di essere Yan Ge. O di essere Zhu Wen, di vivere un’altra vita, di capire com’è. Una malavoglia che sì, bisogna averne la coscienza, è ai limiti del voyerismo. Ma nasce da una curiosità (insaziabile, dice Yan Ge), e da una necessità (dice Petra Hulòva).


Categoria: Cina | Uncategorized



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