In diretta dall'Asia

Gas lacrimogeni: Kim Young-ha

Quattro anni fa, quando a Seoul scelsi Kim Young-ha, e di lui lessi l’inzio di Ho il diritto di Distruggermi con quella lunga descrizione del quadro di David, Marat assassinato con carta e penna tra le mani (e pensavo a un romanzo del nostro Del Giudice), non sapevo ancora che l’Asia per certe sue vie misteriose mi avrebbe di nuovo portato a bomba. Di nuovo, seduto a un caffè davanti al mare di Busan, estremo sud della penisola coreana, Kim Young-ha mi dice qualcosa di sè che ha molto a che fare con me, con noi,  con l’Italia e l’Europa e l’Occidente. Una somiglianza forte, anche se i tempi nostri e i loro sono sfalsati, e i loro sono resi più rapidi dalla trasformazione in timelapse che impazza sull’Asia dell’Est.

Ma proprio i disassamenti che questa somiglianza racchiude, raccontano molto: di loro e di noi. Scopro oggi, dopo questi quattro anni e mezzo, dopo due libri pubblicati a Kim Young-ha, dopo averlo fatto invitare a Mantova e portato a cena un paio di volte, scopro qui sotto un grattacielo di trenta piani dove lui ha scelto di abitare affacciato sull’oceano, che dentro alla sua giovinezza c’è un amico ammazzato da un candelotto lacrimogeno sparato dalla polizia: preso in pieno petto durante una dimostrazione studentesca.

La mia domanda che ha dato il via a questo suo racconto di un dolore giovanile, in un caffè legno e buone bottiglie come uno Slow Food italiano – arredato con una quarantina di biciclette piegabili, tutte ben piegate ed esposte sugli scaffali in colori diversi – è stata: da dove nasceva (era il 1996) nel tuo Ho il Diritto di Distruggermi, quella patina di malinconia persistente – direi: un dolore affrontato con leggerezza – fissato su una noia del vivere che è sicuramente il prodotto di una frustrazione impossibile da scalfire, di una impossibilità di essere normali? A questa che è essenzialmente una sconfitta il narratore (una terza persona di cui non sappiamo il nome, ma solo una vocazione: spingere al suicidio i disperati; e che richiesto di dichiarare quale sia il proprio lavoro risponde a una delle vittime: faccio lo scrittore) reagisce con l’atto estremo: ma non contro di sè, contro gli altri.

La Corea del Sud ebbe la sua dittatura, dopo l’armistizio con il Nord. La dittatura fu abbattuta da manifestazioni di massa, grazie a un’opposizione sociale e studentesca che, anche dopo quella caduta, nei primi anni di democrazia, continuò a serrare le fila e formulò un progetto politico di trasformazione che aveva, entro il suo orizzonte, il socialismo e una società diversa.

Paroloni, Grande Storia, ma sta di fatto che tutti gli artisti di quella generazione, e che noi poi abbiamo conosciuto nell’arte e nel cinema, oltre che nella letteratura, avevano come orizzonte il marxismo, e, come accadde in Italia, questo orizzonte svanì d’incanto nel giro di pochi anni. Da noi, sotto i colpi del terrorismo ‘rosso’ e per l’incapacità (e la pigrizia) a rimodellarsi in modo coerente, da loro semplicemente con la caduta del muro di Berlino, nell’89.

Ma non sono qui a scrivere di Storia: mi interessa la persona. Mi interessa Kim Young-ha che racconta pacato. Per lui come per la maggioranza dei suoi coetanei (lui si laureò in Business Administration, e mai praticò) partì da lì un percorso di iniziazione artistica, attraversando le arti visive e la pittura, fino alla scrittura: qualche racconto e finalmente il primo romanzo Ho il Diritto di Distruggermi.

(La Grande Storia, dalle nostre parti, racconta che con la fine del decennio ’70 i presunti rivoltosi si trasformarono nel quadro intermedio dell’establishment: e la cosiddetta generazione del ’68 di buona narrativa non ne ha prodotta proprio: prese la direzione opposta, andando a costruire infine proprio il corpo dirigente dell’establishment).

Ma qui scriviamo il nome di questo amico – Young-ha l’ha appuntato sul mio taccuino, Lee Han-yol, compagno di corso in università, forse non un amico così vicino ma un conoscente frequentato molto da vicino – e andiamo avanti: un percorso artistico, dunque, per Kim Young-ha.

Amche per altri. Mi fa parla di due registi, Park Chan-wook e Bonh Jun-ho, come gli esempi di chi trovandosi di fronte il muro di una democrazia incardinata su poche grandi famiglie di proprietari (il sistema veniva definito chaebol, e mi fa l’esempio del CEO Samsung attuale, ancora il discendente della famiglia dei proprietari originari), si rivolge all’arte. Lo stesso Nam June Paik è stato suo amico, ne ha un pezzo in casa, e non sa quanto possa valere.

Insomma: sì, in questo in Autodistruggermi, scritto nel ’96 c’è cinismo, lui lo sa. Violenza. Lui intendeva trasmettere la frustrazione dell’impossibilità di costruire un nuovo mondo. Suggerisco: più che cinismo ci vedo amarezza. Young-ha non mi lacia scampo, e ne ha ragione: no, mi dice, quel narratore è un paranoico e lo riconosce in modo chiaro: voglio essere un dio, e un dio è tale se crea o se distrugge. Insomma I Pugni in Tasca, ma a posteriori di una rivolta sociale e generazionale, piuttosto che come il suo annuncio, e su un crinale che scivola rapidamente nella perversione. La perversione del narratore, naturalmente, non quella di Kim Young-ha.

In questi giorni sto leggendo un bel romanzo italiano: La Vita in Tempo di Pace, di Pecoraro. Pecoraro è un settantenne di cui prima, letterariamente, nulla o quasi si sapeva ed è forse il primo che ha il coraggio di raccontare, finalmente, a posteriori, con distanza temporale,  un arco di quasi sessantanni, dai primi Beatles all’oggi. Ne sono influenzato mentre scrivo questo post? Si.

Sono anche influenzato da questo ritorno in Corea. Sono a Pusan, sulla spiaggia di Haeundae, sobborgo ricco della seconda città coreana, la più famosa spiaggia del paese, cento metri di sabbia prima di un oceano apparentemente ignaro di maree. Alle spalle della sabbia c’è una passeggiata. Incontro una serie di cabine: Smart Beach. Sono computer, o emettitori di biglietti che oltre che informazioni danno l’accesso a servizi di ogni tipo. E’ fine marzo, la spiaggia è ancora vuota, lo sguardo è libero. Vedo un’altalena sostenuta da due catenelle d’acciaio. Le catenelle scendono direttamente da un grande cartellone sul quale spicca il bicipite rigonfio di un poliziotto: è saldamente ancorati a quel bicipite che i bambini possono dondolarsi. Più avanti una fontanella, un vascone largo, il cui accesso è regolato da un custode che chiede il biglietto. Lì si lavano i piedi quelli che hanno infilato scarpe e calze nella sabbia.

In fondo, e ci sto arrivando, una striscia di plastica verde si avventura dentro alla sabbia, fino a circa metà distanza dalla battigia. Finisce con una sorta di piazzuola, immagino un campo prova per il golf e in effetti c’è un uomo lì, che sventola quella che sembra una mazza da croquet. Una sigaretta alta due metri, cerchiata di rosso con la banda trasversale dice: no smoking. In fondo, sulla collina dall’altra parte della baia vedo case basse, due o tre piani, forse villette, ma qui siamo protetti da alti grattacieli. Il mare, nonostante stia arrivando un’ondata di nuovoloni grigi da est, è ancora translucido di azzurro. Nel complesso mantiene, a ogni varazione di intensità di luce, lo stesso colore che rimandano le facciate in vetro dei grattacieli: è il colore cangiante del cielo che vi si riflette, nel vetro come nell’acqua, nel mare come nelle finestre di questi palazzi residenziali. Inverto la rotta, torno verso il mio albergo, Westin Chosun sovrastato da una grande rettangolo amaranto che ne riporta il nome, e un tetto che ricorda invece le forme tradizionali, piatto di tegole, ma con i bordini spioventi, e la facciata è gentile, rosa, le vetrate verdi regolari. Forse la forma più accogliente di questa spiaggia, a suo agio con la larga striscia di sabbia e con un oceano chiuso da una leggera foschia, a un paio di chilometri da qui.

L’uomo della mazza da croquet sta camminando nella mia direzione. Quello che ha tra le mani è un bastone, con un pomo nodoso, e lo sventola. Urla: Jesus is coming. E poi più forte ancora: Jesus is coming. Incrocia il mio sguardo per un secondo, io lo distolgo senza fretta, mi rivolgo ai grattacieli. Mentre gli passo di fianco si ferma, gli altri passanti non sembrano preoccupati di quella mazza svolazzante, tantomeno il poliziotto finto che regge l’altalena. Mi accorgo ora che dietro i grattacieli anche questa città – così ricordavo Seoul anni fa – è disseminata di grandi croci di neon colorato sulla cima di molti edifici bassi. Continuo a camminare senza voltarmi.

Ma queste mie, questi post, che cosa sono: figurine? Un album Panini da collezione di luoghi e persone, e matti per la strada e sopratutto scrittori? Anche questa è cosa già detta, dalle nostre parti: mi viene in mente Wenders, Alice nelle città, lui che partiva per l’America profonda, doveva costruirne un libro, torna con un pacco di polaroid che butta sulla scrivania dell’editore: sono tutti motel.

L’arte non puo’, dice Kim Young-ha. Non ha forza. E’ una bella chiacchierata la nostra, che ci porta all’ultimo romanzo suo Murderer’s Memories, appena uscito e che i critici hanno accostato a Distruggermi.

E’ narrato in prima persona da un anziano, il cui Alzheimer avanza. E’ stato, in un periodo della sua lunga vita, un serial killer famoso, e la polizia non lo ha mai trovato. Ma i suoi ricordi sono sprazzi, e sopratutto il suo pensiero sul nuovo fidanzato che sua figlia gli ha presentato: un pensiero fisso, perchè nei suoi atteggiamenti, nel suo sguardo, lui riconosce quello tipico del serial killer. Sa che lo stanno cercando, è scritto su tutti i giornali e lui vorrebbe avvertire la polizia: a tratti vede gli indizi presentarsi chiarissimi, come certezze. Poi si dimentica di tutto, è l’Alzheimer che avanza. E pian piano cancella le sue certezze. Vorrebbe andare alla polizia, ma se ne dimentica…Si dimentica di tutto, anche di sè stesso.

L’abbiamo preso, lo pubblicheremo.

 

 


Categoria: Corea del Sud



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