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Un libro rosso: Yan Lianke

A casa di Yan Lianke, il momento che mi rimane impresso è quello in cui gli chiedo perché, dentro a un suo romanzo, c’è una scena che somiglia a una autocrocefissione da parte di un bambino. Che non è, questo, il modo migliore per cominciare un post leggero per un lunedì mattina, lo so. Ma la scena sembra essere assolutamente non cruenta, una messa in scena voluta, anche se poi porterà alla morte del giovane protagonista.

La mia domanda riguarda, in quel suo romanzo, la presenza di una simbologia evidentemente estranea alla tradizione cinese: in altre parti si cita il mito greco di Sisifo, qui c’è un riferimento alla tradizione cristiana. E mentre per quel che riguarda Sisifo Yan Lianke ricorda come il primo romanzo di questa che lui considera una trilogia (I Baci di Lenin) era al contrario incernierato sulla mitologia classica cinese, per quanto riguarda la crocifissione la risposta è sorprendente, ma intelligente.

La sua citazione non riguarda il cristianesimo, dice: il suo riferimento è alla Bibbia, il Libro fonte di almeno tre grandi tradizioni monoteistiche (l’ebraica e la mussulmana, oltre che la cristiana), Libro che a suo dire spinse la sua influenza verso oriente, fino in Cina attraversando l’Induismo e le sue ramificazioni: il Buddismo, lo Scintoismo per citare le principali. Se consideriamo le fonti orali che concorsero a formare i primi testi biblici, poi ricomposti in greco o in ebraico, ecco che il punto d’origine comune è linguistico: le lingue indoeuropee, la relazione tra i nostri ceppi occidentali e il sanscrito, che vengono a formare un tutt’uno. Mamma mia. Fortunatamente Yan Lianke non è uno studioso: è solo uno scrittore.

Non gli chiediamo un approfondimento filologico. E poi c’è il suo cagnolino che ci gira intorno, il solito microbarboncino marrone chiaro che ha invaso le strade di Pechino, con i padroni a corrergli dietro (ho già scritto che secondo me li fanno in fabbrica: ne sono comparsi troppi nel giro di un paio d’anni). Il cagnolino mi porta una palla di gomma – luminosa! e vorrei vedere che in Cina anche la palla del cagnolino non avesse i suoi flash colorati rossi e blu – da lanciargli e rilanciargli per questo appartamento che visto dal tavolo a cui siamo seduti appare immenso, come una successione di saloni separati da arcate ricoperte di stucchi se non dorati almeno color bronzo.

L’estetica cinese si misura nelle case. Questa dove sta oggi Yan Lianke non è però la sua. E’ nata tre giorni fa una nipotina, lui è stato letteralmente sfrattato e mandato a presidiare questo appartamento (forse la residenza della figlia) a curarsi dei suoi cani. Tra l’altro, la storia della casa originaria di Yan Lianke sarebbe tutta da raccontare (una casa tradizionale, di corte, in un hutong, buttata giù per far spazio al cemento e all’acciaio della Nuova Cina, con sue lettere di protesta alle autorità, tentativi di inutile resistenza). Ma sto divagando troppo, questo uomo piccolo e leggero a dispetto di una mole ragguardevole – leggero è il suo dire, il suo fare – sicuramente poco avvezzo a corazzarsi di una immagine pubblica – a un recente dibattito si è presentato sul palco con scarponcini, maglione spesso da casa, e intelligenza acuta – questo uomo ha una tale consuetudine al racconto che risulterebbe difficile ancorarlo a una tematica, a una logica da studioso. E’ venuto giù a prenderci all’imbocco della strada tenendosi il cagnolino in braccio – perché non lo ha lasciato su per quei cinque minuti, visto che dopo, uscendo per la cena, lo ha lasciato solo in casa? Quando l’ho visto  arrivare ho pensato che non fosse lui a proteggere la bestiolina digrignante, ma il contrario.

Patrizia Liberati, la sua traduttrice italiana che fa da chaperon e da interprete al nostro incontro, mi ha pregato di non fargli domande rischiose: i libri censurati, il difficile rapporto con le Associazioni degli Scrittori. Dice: è così ingenuo che rischia di darti risposte compromettenti. Risposte che, se mai sono venute fuori, io non sto a riferire qui.

Mettiamo un po’ d’ordine allora. Yan Lianke ha scritto quasi una decina di romanzi, di cui almeno sei tradotti in molte lingue. Il Sogno del Villaggio dei Ding (Nottetempo) è forse il suo capolavoro, in Italia abbiamo visto anche Servire il Popolo (Einaudi) e sempre per Nottetempo un suo libricino di ricordi, intorno alla figura di suo padre. I due romanzi che ho citato hanno una ventina di traduzioni estere, è stato finalista a cinque premi importanti (tipo il Booker) in UK, Spagna, Cechia, Asia, il suo Baci di Lenin fu libro dell’anno (libro cinese, si intende) per Kirkus, New Yorker e Maclean’s, per non parlare dei riconoscimenti avuti in Cina. Tutto liscio fino a questo I Quattro Libri, che abbiamo qua davanti sul tavolo: non ha passato il vaglio della censura. Yan Lianke ha reagito nel modo più semplice: se lo è autoprodotto, con una bella copertina rosso fuoco, e un rettangolo bianco al posto del codice a barre. E lo regala agli amici: ma ci sono già sei traduzioni estere.

Il motivo della censura è semplice: il tema è l’universo concentrazionario cinese. Ma non si parla del tempo della Rivoluzione Culturale, di cui è ormai senso comune, e retorica ufficiale, denunciare ‘gli eccessi’, e le cui vittime sono state da tempo ‘riabilitate’. Si parla di un tempo che viene ufficialmente negato, anni cinquanta e sessanta, come se prima della Rivoluzione Culturale i campi di rieducazione non esistessero.

Ecco, il romanzo di Yan Lianke, condotto sul filo di un registro leggero, tanto distante dalla retorica plumbea del dolore quanto capace di renderci la banalità del male, articolato nei quattro libri che sono quattro voci diverse (il bambino trovatosi sorprendentemente nella posizione del kapò, uno scrittore, e poi un filosofo detenuti nel campo – che, appunto, aveva questa specialità: rieducare gli artisti – e una voce narrante onniscente in terza persona), interposte l’una all’altra ciascuna con un suo stile. Quattro, il numero che fa riferimento ai quattro Canoni di Confucio, ai quattro Vangeli maggiori. Numero impronunciabile in Cina per la sua quasi omofonia con la parola Morire (negli ascensori non trovate il quarto né il quattordicesimo o il ventiquattresimo piano, e a volte per indicare quel numero si usa il termine ‘mezzo otto’).

A giudizio di Yan Lianke, è il suo libro migliore.

Che si fa, allora, di un romanzo che in Italia nessuno ha acquistato? Si fa che lo vogliamo noi. Si fa che si va a cena. Si fa che Patrizia mi dice: ho visto, tu di Yan Lianke di sei già innamorato. A me per la verità piace anche l’ultimo dei suoi romanzi, ne parleremo. Patrizia freme per tradurre questo I Quattro Libri.

Mangiamo bene, come sempre. Assaggiamo il piatto preferito di Ciu en Lai, un gustoso polpettone di maiale in brodo, e un sacco di altra roba buona. Brindiamo a Maotai, bicchierini microscopici ma ne mandiamo giù tanti.

Il giorno dopo, nessun mal di testa, un cicinin di intontimento e la domanda: I Quattro Libri fa parte di una trilogia: quanto ci costerebbero i diritti di tutti e tre? Patrizia sarà generosa nelle sue richieste?


Categoria: Cina



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