In diretta dall'Asia

Il viso di Tew Bunnag, nello schermo del mio computer

Non l’ho mai incontrato: unico tra i miei autori, come ho già scritto. Ma ho trovato finalmente il suo volto nello schermo, come accade nelle riunioni d’ufficio, asettiche, volti con poca espressione tanto che in genere si preferisce tenere solo l’audio.

Bunnag è qui vivo davanti a me, l’impressione che provo davanti al suo sorriso è di vicinanza assoluta. Dietro di lui c’è luce, e mi sembra che illumini ripiani, o mobili, colmi di libri. Siamo in realtà in controluce, la finestra in fondo è una macchia bianca, e un paio di volte vedo, come un fantasma, un corpo affilato passare e allontanarsi, forse una donna.

O forse mi invento tutto. Siamo in Spagna, a Girona, Costa Brava, pochi chilometri dalla Cadaques di Picasso e tanti altri. (Siamo? lui è lì, a schermo intero, io sono dietro lo schermo!). Gli chiedo di parlarmi di sè, di capire la sua vicinanza con Bangkok: quanti mesi l’anno, e perchè. Gli chiedo di spiegarmi la sua condizione di maestro di Tai Chi Chuan. E il legame tra le due cose.

Dice, questa è la mia vita vera: insegno in Europa meditazione e psicologia. Il rapporto dello spirito con sè stesso. Sono un maestro spirituale: mi chiamano per assistere i malati terminali, li aiuto a morire: e ti assicuro – mi dice con il suo sorriso da nonno – che questa è davvero la parte più importante della mia vita.

Io sono ateo, spesso provo fastidio per le untuosità di chi si ammanta dello spirito e della protezione del proprio dio. Ma Bunnag è vero. Autentico, senza fronzoli e narcisismo.

Ero partito, io ingenuo, spiegandogli una mia difficoltà a maneggiare troppe cose, che lui di me conosce già: la scrittura, i libri degli altri con Metropoli d’Asia, ora una infilata di presenze a eventi letterari asiatici e pure a blog del continente, la società di microfinanza in Italia. Quando gli ho detto, dovrei ridurre, tagliare qualcosa e concentrarmi, come faccio a scrivere in queste condizioni? lui ha risposto, io faccio una marea di cose diverse, e mi piace farne tante, e i miei racconti, i miei romanzi, li scrivo nei ritagli di tempo ma non perdo il filo lo stesso.

A Bangkok: dovresti venirci, mi dice. E’ partito un progetto straordinario, dovreste entrarci anche voi con una parte di microfinanza. Ho passato decenni della mia vita a occuparmi degli orfani, costruendo centri di accoglienza e scuole. Ora questi ex orfani hanno diciottanni, mi chiedono: dove lo trovo un lavoro? Stiamo lavorando sui loro progetti di business, ma con un aprroccio olistico – non so cosa lui intenda, vedremo – è un progetto modello che verrà premiato dall’ONU.

Tew Bunnag, membro di una delle più importanti famiglie aristocratiche del paese, “Sì, un ramo è strettamente imparentato alla famiglia reale, io sono il discendente diretto di colui che fu reggente tra Rama IV e Rama V.” E la sua rottura con la famiglia, l’abbandono dei doveri e dei poteri, la scelta di ‘mettersi in proprio’ con la sua ong, di rivolgersi agli strati inferiori della società tailandese, “was a painful decision which I took in England, in 1968.”

Ka-boom! Il ’68? In England!

E’ il secondo o il terzo nello spazio di pochi post. Prima Kim Young-ha e i poeti coreani che dopo i lacrimogeni degli anni ottanta virano verso la produzione artistica, ora Bunnag con il suo sessantotto britannico purissimo e altoborghese (aristocratico!) che vira in tre direzioni complementari: certe forme di spiritualità orientale (il Tai Chi, il Tao), il lavoro nelle baraccopoli di Bangkok, e la scrittura: racconti all’inizio, e poi i due recenti romanzi.

(E ci sarà. nei prossimi post, ancora un po’ di storia di quegli scrittori e poeti cinesi che vissero i loro anni ottanta, pre Tian an Men, come fossero gli anni sessanta europei – leggendo Sartre, Camus, Guy Debord).

Tew Bunnag dice: “Ho partecipato a quella stagione. E adesso cosa faccio: torno a casa a fare il re?” Usa il suo linguaggio: mi parla di traversata nel deserto, sette anni in viaggio, in autostop, in Marocco, in India, in Grecia. Poi tornava in Inghilterra: “Praticavo il Tao già negli anni sessanta: venivo dall’Asia, e ho finito per insegnarlo in Europa.” E a metà di questo racconto di viaggio, di questa parabola sull’errare, ci infila una frase semplice che in questi anni ho ascoltato da molti scrittori in Asia: non volevo essere élite.

Il suo erarre lo riporta in Tailandia, è inevitabile, giusto. Prende parte ai primi movimenti per la democrazia negli anni settanta, forse è lì il suo posto, ma non mi racconta la evidente difficoltà della propria condizione: pecora nera della famiglia, inviso ai suoi, ma probabilmente protetto ugualmente dalle angherie del potere: non finirà mai in prigione un Tew Bunnag. E qualche compagno del movimento democratico gli rimprovererà la propria condizione. E’ preso tra due fuochi, come sottrarsi?

Grazie a un invito: di nuovo, un amico tailandese lo riporta in Gran Bretagna in una comunità, dove insegnare discipline orientali a quei giovani europei che in quegli anni percorrevano la sua strada in senso opposto: partivano, andavano in oriente.

“Ero fragile. Non sapevo come vivere. E ho avuto la mia prima figlia, poi un figlio”. E nel 1995, prima dei cinquantanni, quest uomo è già nonno la prima volta. Sorride, dentro al mio computer. E’ un uomo contento, dei libri che lo circondano, della luce di quella finestra alle sue spalle, del corpo che attraversa il mio campo visivo, sullo sfondo: una seconda moglie, dopo la morte della prima.

“Insegnavo Buddismo, meditazione e Tai Chi in Gran Bretagna, venivo invitato ovunque in Europa. Ho fatto tutta quella strada insieme agli hippy, ma hai ragione tu: in senso inverso. La mia formazione è europea, eppure sono nato in Tailandia. Io potevo fare da ponte. E questo mi permetteva anche di tornare in Tailandia con un occhio europeo, ma non coloniale.”

E scriveva. Quasi ogni giorno, racconti, ma senza una disciplina, non riusciva a darsela. Produce pochissimo, ma lo produce. In realtà fino agli anni ottanta sono libri sul Tai Chi, la fiction vera arriva più tardi: due raccolte di racconti scritti a Bangkok, quando ha dovuto fermarsi in città a occuparsi di sua madre, per qualche anno: una mamma con l’Alzheimer.

Del suo lavoro negli slum, della sua Ong, non me ne parla mai in termini pietistici, o di orgoglio ‘committed’. Mi dice chiaro: “Mi sentivo intrappolato dentro al mio ceto sociale. Dovevo uscirne, vedere altro. E non potevo certo frequentare persone di ceto medio come se niente fosse: mi avrebbero sempre trattato come un regnante, o quasi. Mi sono buttato negli slum.” La famiglia non riesce a sopportare la situazione: “They became mad.” Nonostante ci fosse una vena di sinistra, in casa, quantomeno quello che lui si aspettava di trovare a suo favore: rispettare le scelte degli altri senza giudicarle.

Dici poco, Tew. “Ma a me pare semplice: hai dei privilegi, e quindi delle responsabilità: devi restituire qualcosa, non è solo una scelta politica”, (e sta pensando al suo ’68 londinese, qui).

E poi sta bene negli slum, gli piace parlare con la gente, con i bambini: e farà figli, e avrà nipoti: quattro, che vivono, pensa un po’, a Cortona, tra la Toscana e l’Umbria. E l’altro dei suoi figli è regista di documentari, la sua seconda moglie un’artista.

E poi ci sono i romanzi: Il Viaggio del Naga e questo Cortina di Pioggia: incardinati ambedue, e lo sarà il terzo della trilogia, sull’acqua. Con personaggi che ritornano, e dentro allo stesso ambiente: scrittori, artisti, editor, intellettuali di Bangkok: gli accenni al Tao, o agli slum, ci sono, ma minimi. C’è la politica, la lotta per il potere, l’aristocrazia alla finestra davanti ai sommovimenti sociali.

“Credo che la mia fortuna sia proprio questo punto di vista da straniero: vengo dall’Europa, ma sono profondamente tailandese e asiatico. Ho la fortuna di poter osservare la mia città e il mio paese con uno sguardo esterno, da osservatore, quasi da studioso: il limite dalla letteratura tailandese è invece proprio la mancanza di prospettiva.”

Scrittura meticcia, dunque, e esistenza errante: un po’ il contrario dell’autenticità locale che cerco io con Metropoli d’Asia, ma non glielo dico. Non gli dico che lui mi fa riflettere, che forse davvero le narrative asiatiche migliori sono quelle contaminate, quelle che vengono da autori – persone – che tengono il piede in due scarpe, il paese d’origine e una nuova patria d’adozione occidentale (ma non solo: magari sudafricana, magari hongkonghese, c’è persino chi sta alle Hawaii).

“E gli europei che raccontano Bangkok non la capiscono,” continua Tew. “C’è un mistero, a Bangkok, io lo percepisco. E devi starci in mezzo, devi esserci cresciuto per sentirlo, nei mercati di strada, negli slum, ma anche nella metropolitana sopraelevata. Ed è perchè vengo da fuori che io lo posso vedere.”

E poi: “Odio le stratificazioni sociali.”

Gli chiedo: ma come reagiscono negli slum, sapendo chi sei, da che famiglia vieni? Dice, non lo sanno. Non conoscono il mio nome di famiglia, non sanno che sono maestro di Tai Chi.

E non sanno, presumo, che scrivi romanzi. E che vivi tra Girona, Bangkok, Londra, Cortona, e negli schermi dei computer.

 

 


Categoria: Tailandia



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