In diretta dall'Asia

Poeti a Seoul (e altri lacrimogeni)

Seoul è così grande che la percepisco solo un pezzo per volta. Rasa al suolo con la seconda guerra mondiale e poi con la lunga guerra che divise le due Coree, è quasi interamente ricostruita, al di qua e al di là di un largo fiume che determina ampie highway, ponti, svincoli. Il suo centro è poco riconoscible, non ortogonale, vedo un muro e  centinaia di autobus addossati a quel muro come nelle vie adiacenti: è il parco che racchiude i templi antichi, le mura.

Nella hall dell’albergo incontro un personaggio mitico. “Un po’ old fashioned”, mi disse Kim Young-ha. Lo trovo con la faccia piegata costantemente da un lato come in una smorfia di leggero disgusto, ma è solo un atteggiamento iniziale, una sorta di timidezza: l’espressione di default.

Restiamo in piedi nella hall: i bar sono troppo expensive, dice lui, ma abbiamo ancora una ventina di minuti buoni prima che arrivino il poeta e la editor. Gli chiedo: ma quindi prete? o spretato? “Brother”, risponde piegando di nuovo la testa da un lato, sorpreso della mia ignoranza. Fratello di Taizè, nome già sentito nel terzo mondo. Opere di carità, sì, ma quest uomo arriva decenno orsono e si fa affascinare dalla lingua coreana, dalla sua letteratura classica, e poi dai poeti contemporanei. E parlandomi della democrazia, degli anni settanta e ottanta  e novanta usa questa espressione: beh, e poi mi son preso anch’io la mia dose di lacrimogeni e tutto quanto.

Viva il Brother allora: la poesia la traduce, gli piace. A Londra alla fiera del libro accompagna un nome più famoso di quello che mi porta questa sera, ma l’ha tradotto lui. Shim Bo-seon, che quando arriva vestito di un giubbino in questa hall di gente in blazer, in completo grigio, non da mostra di vergognarsene. Timidezza zero, semplicità, un impiego all’università (noiosissimo, mi dice). La cotraduttrice di  Shim Bo-seon, che ci accompagna fa un po’ da tappezzeria: parla a voce troppo bassa, non la sento, dopo un po’ esce dalla conversazione.

Per andare al ristorante passiamo da un immeso mercato nel sottosuolo: è quasi tutto kimchi il cibo fermentato tipico di qua. Fermentato? Sì, lo salano, aggiungono acqua, e poi lo lasciano qualche giorno a macerare. Pesce, carne, verdura. Ai banchetti si può assaggiare. Assaggio tutto.

E’ una cena veloce, questa, io e il giovane poeta non riusciamo a parlarci moltissimo, nel frastuono di un ristorante popolare. Ma quello che ci tiene a spiegarmi è quanto lui voglia distinguersi dalla tradizione classica: la poesia come letteratura alta, con un vocabolario inaccessibile ai più non gli interessa. Predilige l’utilizzo delle locuzioni gergali, i modi di dire della gente qualunque, per la strada, che a suo dire riflettono il loro modo di vivere, e di pensare.

Io provo a dirgli che la poesia in Italia non ha la forza di penetrazione che le vedo avere in Asia. Pochi sono i nomi di poeti contemporanei che ricordo, e gli cito due che virano sul dialettale, la lingua delle persone comuni: Luzi e Zanzotto.

E mi dice lui, Shim Bo-seon, quello che stavo per domandargli io: che sì, la scrittura contemporanea coreana (e aggiunge: sopratutto quella maschile), ha la sua origine in quegli anni ottanta di contestazione, e di rifiuto di una modernizzazione che ormai li ha travolti. ma loro non hanno voglia di piegarsi. E me lo dice lui: è come il punk. Punk will never die.

Poi, per la strada, circondati dagli impiegati in grigio usciti dagli uffici del centro che mangiano ai tavolini, mi dice (meglio: mi declina un suo verso li per lì): la Corea è così: questi in giacca e cravatta cenano e continuano a parlare del loro lavoro, non hanno altri argomenti, i giovani guardano la tv, hanno i videogiochi, e vanno a ballare, in silenzio. Anche i poeti quando si trovano insieme restano in silenzio: però bevono.

L’ha detto lui.

E Brother Antony? Nato in Cornovaglia, diventato presto Frate di Taizè, naturalizzato sudcoreano, con il nome di An Sonjae. Dal cognome An, per facilitare noi occidentali, il nome Anthony.


Categoria: Corea del Sud



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