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Ou Ning, l’intellettuale cinese che torna alla terra

Ou Ning, l'intellettuale cinese che torna alla terra
Poliedrico intellettuale e artista, curatore di mostre d’arte, critico letterario, grafico, propugnatore del Movimento per la Ricostruzione Rurale, Ou Ning ha lasciato Pechino per andare a vivere in uno splendido villaggio tradizionale nel centro della Cina

Chutzpah Tian Nan ha chiuso le pubblicazioni. Non è una notizia per l’Italia, lo è per la Cina, dove si era imposta come la più innovativa delle riviste letterarie della scena locale. Completamente slegata dai gruppi editoriali di stato (in un paese dove anche gli editori semi-indipendenti devono passare da un grosso gruppo statale per ottenere il diritto di pubblicazione di ogni singolo libro), edita da un privato specializzato in riviste di moda, automobili e amenità varie, è stata censurata dal mercato: non ce l’ha fatta.

 

Ou Ning, il suo creatore, non ha certo l’intenzione di darsi per vinto: continuerà a lavorare con l’industria editoriale, a promuovere gli scrittori che predilige e magari a portarli in giro per il mondo. L’energia intellettuale di quest’uomo è un riflesso compiuto della sua figura fisica: non è alto ma è forte, rimanda un’immagine di prestanza fisica nonostante la pacatezza dei toni, che si spezza solo a tratti in una sfuriata contro chi non la combina giusta: un suo editor, il fratello a cui ha affidato la casa dove vive con molta parte della sua famiglia.

 

Con Chutzpah! (termine yiddish che si può tradurre con scapestrato, insolente, e giramondo) Tian Nan (cieli del sud, un meridione della Cina poverissimo da cui è venuto fuori a forza di buoni voti a scuola e di una intelligenza che lo reclutava alle migliori scuole superiori e università del Guangdong) aveva voluto puntare su due generazioni di scrittori a suo dire compresse e schiacciate da scrittori più famosi, che lui invece non ama. Non ama, pur riconoscendone il valore, i grandi vecchi (esponenti di quella che a volte viene definita come ‘letteratura rurale’: i Mo Yan, gli Yu Hua, i Bi Feyu, per nominare i più noti), nati prima della fine degli anni sessanta, a suo dire incapaci di incidere nel profondo del macrocosmo cinese contemporaneo. Non ama e letteralmente non sopporta i giovani balinghou, i nati negli anni ottanta i cui romanzetti giovanili hanno venduto milioni di copie in Cina senza però lasciare tracce indelebili del loro passaggio: una giovane editor cinese, parlando di loro, mi disse un giorno: dai miei quindici anni in poi me li sono letti tutti, ma io poi sono cresciuta come lettrice, mentre loro non sono cresciuti come scrittori.

Ou Ning punta innanzitutto sulla generazione dei quarantenni: la sua. Nati intorno al 1970 e nel decennio successivo hanno vissuto da giovani la rivolta di Piazza Tian’an men, ma soprattutto la fioritura culturale dei tre quattro anni che la precedette. Poi, passato il plumbeo periodo successivo, si sono ritrovati dentro a un sistema sociale in virata stretta verso il libero mercato: del passaggio della Cina dal comunismo ortodosso al capitalismo più deregolato del mondo non si sono persi nulla: lo spaesamento è il loro tema.

 

Quando Ou Ning mi parla di scrittori, il suo lato professorale si scioglie in fretta. Si toglie l’eterno cappello rosso che porta come un emblema a ogni occasione. Con la sua figura bassa, quasi un po’ tozza, il viso tondo e gli occhi scintillanti mi parla gongolante di un giovanissimo autore dello Sichuan. Dice: vive in una piccola città di provincia (quattro milioni di abitanti: io sobbalzo). Ha gli occhi che ridono quando pensa a un ragazzo di ventidue anni che, scrivendo ancora pochissimo (tre, quattro racconti che lui ha pubblicato su Tian Nan) legge e studia da autodidatta: prende i classici della letteratura modernista (la prima parte del secolo scorso), e li riscrive parola per parola: vuole impadronirsi della propria lingua.

 

Piace, a Ou Ning, questa leva di giovanissimi: nati dopo il ’90, sono venuti su a cose fatte: sono il mondo nuovo, la generazione che parte da zero, e che ha già bisogno di interrogare il timelapse che si ritrova attorno, combattendo a denti stretti l’avvento dei microblog – ossia: l’equivalente di twitter cinese (twitter è censurato), che qui si chiama weibo, anch’esso limitato a 140 caratteri che però essendo ideogrammi sono 140 sillabe o perfino 140 parole: ci sta un articolo, in un cinguettio.

 

Ma qui sono troppe le informazioni che sto fornendo: torniamo al racconto, in medias res come si diceva al liceo – e continuando a latineggare: troviamo un genius loci per quasta Cina in preda all’inarrestabile urbanizzazione decisa dall’alto.

 

Siamo a Bishan, Yixian County, provincia dell’Anhui, una terra di montagne tra le quali si aprono pianure coltivate. Bishan è un antico villaggio contadino dove resistono forme architettoniche pluricentenarie che Ou Ning ha convinto gli abitanti del posto (e il ‘Direttore’ del villaggio) a preservare: per inaugurare una sua speciale forma di turismo responsabile. E’ scappato da Pechino: costa troppo, la sua molteplice attività di editor, grafico, curatore di mostre d’arte si dirama attraverso lo schermo del suo computer: ecco, l’intellettuale cinese se ne torna in campagna. Hanno costruito le megalopoli nuove nel giro di dieci anni, e in un lasso di tempo così breve già si impone, tra gli artisti, il mood del ritorno alla terra.

 

Mi ha fatto sedere nel suo studio, una vetrata larga otto metri che da su un cortile interno chiuso dai muri delle case del villaggio, con i tetti a ricciolo, le tegole di ardesia: lo sguardo di Ou Ning alla scrivania non spazia sulla campagna e le montagne dell’Anhui, ma si lascia conchiudere entro lo spazio della realtà – e della povertà – contadina: “Mi rifaccio alla predicazione di Kropotkin, un secolo fa, il suo Movimento della Ricostruzione Rurale che anche qui ha una sua storia sedimentata. Facciamo riunioni con i contadini e proponiamo nuove coltivazioni, insegniamo nuovi metodi di concimazione.” E poi lui a Bishan ci fa un festival (lo ha chiamato Harfestival, occhieggiando all’harvest – raccolto – e agli hobos americani di Arlo Guthrie, i disoccupati urbani costretti a tornare nelle campagne come stagionali). Il festival è dedicato alla fotografia e alla performance artistica (per una biografia completa del poliedrico Ou Ning vi lascio alla rete). Vuole vedere, davanti alle installazioni artistiche, visitatori europei e contadini cinesi, mischiati insieme. Ma la censura gli ha cancellato l’ultima edizione: in Cina la censura fa così, viene e va, un po’ a capocchia.

 

La casa dove ha messo la sua famiglia è un’abitazione tradizionale costruita intorno a una piccola corte entro al quale converge l’acqua del tetto spiovente su quattro lati: e si forma la riserva, nel pozzo. Le camere che si affacciano sulla corte sono riempite di pezzi d’arte moderna, fotografia soprattutto. La scale sale a un secondo piano che nei fatti è un grande soppalco tenuto su da possenti pilastri di legno, e le stanze si affacciano sulla corte.

 

Ci passano in tanti: architetti di Taipei, filmmaker di Singapore. E una lunga teoria di poeti cinesi che portano le loro riviste le loro stampe, che ancora circolano molto a mano. Perché la poesia, mi dice soddisfatto Ou Ning guardando il muro di fronte alla sua vetrata, in Cina è ancora una forma di ribellione: come fu da voi il punk, aggiunge.

 

Non commento, mi pare una frase impegnativa. Ma capisco che a Bishan dovremmo andarci tutti, un giorno o l’altro. Da lui, o in una delle guest house tradizionali, a vedere quei villaggi. Lontani dalle metropoli, per parlare delle metropoli e di chi le sa raccontare.

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Categoria: Cina



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