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Il 35 maggio a Pechino: la data impronunciabile, il luogo che non c’era.

Scrivo su un blog italiano, ma c’è una data che è più saggio autocensurare. Così come il numero di anni (se fossero nozze si direbbero d’argento, ma purtroppo nozze non furono) passati da quel giorno. C’è un controllo specifico, nel sistema internet cinese. Lo chiamano il grande firewall: se identifica un tag sgradito (una parola, un numero, un carattere) elimina automaticamente il post.

Questo blog non è mai stato oscurato: che gli importa a loro di me? Ma se fossi un giornalista noto, un nome di maggior spicco, firma su testate internazionali, avrei necessità di queste accortezze.

No, non è successo niente, quel dì. Io posso solo testimoniare la fatica che ho fatto, in questi ultimi anni, a recepire un racconto in presa diretta. Ho frequentato molti dei poeti, scrittori, registi che a Nanchino pubblicarono, prima e dopo quel giorno, la rivista Tamen, Loro, in cinese. Un bel gruppo di riottosi compari. Eppure quando li stringo all’angolo e chiedo: dov’eri in quelle ore, cosa facevi? Eri a Nanchino o eri corso a Pechino anche tu? Ecco che i racconti sfumano.

Il mio amico Zhu Wen, che vuole girare film in Cina, e vuole continuare a vedere i suoi racconti nelle librerie – storie corrosive, come si sarebbe detto una volta, Cina nuda e cruda del liberissimo mercato e della jungla sociale diretta dall’alto in nome del Popolo – rispose anni fa a un consesso molto raffinato in Europa: non so, io la sera prima avevo bevuto, quel giorno probabilmente ho dormito fino a tardi. Alcuni raffinati insorsero, ma la Cina d’oggi è così: la morsa del controllo si stringe, si allarga, e poi si stringe ancora, e molti occupano gli interstizi.

Ou Ning, che nel villaggio di Bishan sta costruendo un progetto di turismo sostenible e ricostruzione rurale, mettendo insieme i contadini del posto, gli architetti e i fotografi internazionali, gode forse di qualche protezione maggiore (quel che fa porta soldini anche nelle casse dei municipi di una sperduta e bellissima provincia dell’Anhui): per questo il suo account twitter (che in Cina è oscurato) ha per profilo un disegnino, una fila di carriarmati il primo dei quali punta la sua bocca su un ragazzino in maglietta: il ragazzino non ha nelle mani due borse della spesa, ma è seduto a terra, gambe incrociate, e scrive su un computer.

Ma tu dov’eri, quel giorno? Ero malato, avevo preso la TBC ed ero tornato al villaggio, non sapevo nulla, se non attraverso lettere che arrivavano con giorno di ritardo. Oppure: avevo appena dato gli esami di laurea e mi avevano spedito in provincia, a insegnare. C’erano tutti e non c’era nessuno, e così si fa ancora adesso. Volete cancellare quella data? Cancellatela pure, ci sono tanti altri giorni, tante altre rivolte (si dice 80.000 l’anno, in Cina), ci sono i mesi a venire, e i microblogger, e i passaparola, e una generazione che quel giorno là forse nemmeno era nata, ma che ha voglia di parlare libera. Adesso.

Dice Ou Ning: vedi, quel giorno è sempre stato considerato l’inizio di un ritorno al passato, la fine di quel dorato periodo di aperture e fioritura culturale che lo ha preceduto. Era invece il giorno che inaugurava un mondo nuovo: i carriarmatini da risiko che vedi sul mio profilo twitter aprivano la strada al capitalismo più sfrenato, al liberismo selvaggio. Arricchirsi è giusto, disse Deng Xiaoping, poco tempo dopo: e la Cina è diventata, dietro una bandiera incongruamente rossa, il paese più capitalista del mondo: come dicono i filosofi, è l’eterogenesi dei fini.

Ma quel giorno?

 


Categoria: Cina



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