In diretta dall'Asia

Kirpal Singh, fuori contesto

In diretta da Milano, via Vittor Pisani, appena usciti dalla stazione sotto il lungo colonnato modernista (dovrebbe mettere in risalto l’architettura della Stazione Centrale, divenuta meta turistica: abitavo da queste parti, da bambino, e i cavalli alati mi lasciavano a bocca aperta: ma ora? non riesco a allinearmi, io lì ci vedo Gardaland, o qualche strano film di esploratori tra i selvaggi, mancano giusto dei bei braceri con le fiamme: ai cinesi che veranno all’expo piacerà un sacco, e la coloreremo di luci a più non  posso. Vedrai). In diretta da via Vittor Pisani, sotto il colonnato, io e Gaia torniamo dall’incontro con la promozione editoriale a Bologna. Incontro non male, buone idee e progetti. Ci vorrebbe qualcuno a benedirli.

La’ in fondo, sotto il colonnato, mi viene incontro un Sikh. Turbante blu elettrico, barba bianca, pancetta, una moglie scura, forse del sudestasiatico, un ragazzino che gli salta tra i piedi.

Non ci credo. Non riesco a crederci: è Kirpal Singh.

A Kirpal, il primo ad accogliermi a Singapore anni fa – mi aveva introdotto una associazione di scrittori asiatici con base a Melbourne, APWT, l’ottima Jane Camens.

Gaia pare sgomenta, come dicesse: anche qui, li incontri? Sì, l’Asia mi insegue. Kirpal Singh parlerà in Bicocca, uno speech su e-leadership (o mi ha detto e-readership?), invitato a un convegno, lui che è docente alla Singapore Managment University e esperto di troppe materie: sopratutto poeta, critico letterario, esperto di libri, di dibattiti, sempre in mezzo come moderatore al Singapore Writers Festival, membro della commissione che assegna contributi agli editori locali: insomma una potenza d’uomo, di padre Sikh, di madre ebrea scozzese.

Passeremo insieme, la sera successiva, un paio d’ore al bar dell’Hilton, e vuotiamo il sacco su tante cose. Singapore che sta cambiando, un’opposizione ridotta al lumicino in parlamento da una legge maggioritaria che oblitera il suo 40% di voti, le relazioni pericolose tra istituzioni culturali e una mezza dittatura a fine corsa, i contributi dati ad autori i cui romanzi ne sono una critica diretta e indiretta, sia quando si riferiscono al passato – e alle piccole rivolte, alla galera per alcuni, al compromesso per altri – che al presente – la piazza finanziaria sporca che si ricicla in meta del turismo asiatico con i casinò e i suoi parchi a tema, le attrazioni fatte per stupire, le forme architettoniche per trovare spazio sui media internazionali: e, come usa dire adesso, le escort.

E i compromessi, appunto. Kirpal, dei propri non fa cenno. Ma mi fa capire che qualche comune amico ne ha dovuti ingoiare. La stessa Ethos Books del mio amico Fong Hoe Fang, che oggi pubblica  i memoir dei dissidenti degli ottanta e dei novanta, le storie di galera: tutto con il contributo di istituzioni di governo, magari piegandosi preventivamente a pubblicare poeti icona nazionali – grandi poeti, non c’è dubbio, mette le mani avanti Kirpal Singh – che non stavano propriamente dalla parte giusta. Con conseguenti sensi di colpa dell’editore, e critiche degli amici, e rotture di amicizie, e ricongiungimenti: vita difficile, in un paese che diventa democratico un passetto al giorno, cercando di non farsi notare.

Insomma davanti agli occhi (blu alla scozzese? scuri alla punjabi? Kirpal è di quelle persone che mi lasciano sempre nell’interrogativo riguardo al colore dei suoi occhi, cangiante), occhi vivaci a sessantasette anni, di una persona che ha ancora la voglia di discutere di questioni private e di politica mettendole insieme, e di socità e letteratura, e lo fa con serenità e arguzia, con tanto piacere nello scambiarsi opinioni: e sopratutto le ha, le sue opinioni, e le argomenta, eccolo qua, di nuovo il confronto che mi vien voglia di fare con l’Italia.

Una sera, a cena, ho litigato con un gruppo di amici. Ho detto: ma di che parlate, perchè urlate? Perchè passate da un argomento all’altro come foste Gasparri a Ballarò, o i tanti giornalisti da show che impestano il mio televisore a Milano?

Si sono offesi: chi ti credi di essere, tu, solo perchè puoi restartene a Pechino. Bella la vita, eh?

Credo che voi vi stiate magiando il fegato, ho risposto, e con quel fegato roso pretendete di comunicare – peggio: di pensare – e finisce che a me non raccontate più nulla. Credo di essere uno che preferisce parlare con la testa, con il vocabolario e la sintassi – a scuola ce la insegnavano: analisi logica – e metterci dentro un po di cuore (parola grossa). Così mi accade nell’Asia che emerge, che pensa, che parla. Utilizzando gli organi del corpo al completo, costruendo discorsi che, anche davanti a una bottiglia di Merlot, filano, e consentono una risposta a tono, in tema. Un’Asia che, appunto, val la pena di scandagliare.

Per tutta risposta un tale mi ha mostrato un video che gira su youtube e facebook: un cuoco cinese  prepara petti di pollo fritto macellando topi.

Come direbbe Cacciari: ma va’ in mona, va’.


Categoria: Singapore | Uncategorized



Leave a Reply