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Bridging Cultures a Singapore: costruire ponti, ma in che lingua?

Bridging Cultures a Singapore: costruire ponti, ma in che lingua?
Le due sponde sono lontane: il mandarino e l’inglese. E tanti soldini piovono da una parte e dall’altra per far prevalere il proprio softpower. Chi costruirà il ponte?

 

Strana creatura, questa Asian Pacific Writers and Translators. Nomadica, ogni anno in un paese differente a seminare una manciata di dibattiti nei quali ciascuno di noi è di volta in volta speaker o pubblico. Ma arrivano anche i lettori: quest’anno quasi cento singaporeani hanno pagato cifre consistenti per partecipare agli workshop, dove gli Asian Pacific mettono a disposizione la loro scienza editoriale.

Il punto sorgente di APWT è l’Australia, un paio di università, e quindi mi sono visto passare davanti una sfilata di nomi di autori locali a me quasi sconosciuti. Questa mia poca attenzione per la letteratura australiana provocava sgomento: e allora uno dei panel più partecipati era proprio quello da me proposto: la lingua inglese sta cercando di ricolonizzare il continente? Si scontrerà con la crescita di influenza del cinese? Soldi di università e istituzioni anglosassoni vs. soldi degli Istituti Confucio, attraverso i quali l’apparentemente monolitico potere cinese cerca di contrappore il proprio softpower al suo equivalente occidentale.

Tante le cose da raccontare allora.

Martin Alexander, che da Hong Kong dirige la gemmazione della prestigiosa Asia Literary Review (caduti gli sponsor si spinge un sito un web, un pacchetto di blog, e si prepara una ripresa dell’edizione cartacea sulla base del print on demand in tre luoghi diversi del mondo: Hong Kong, Londra e New York: così di nuovo le bibilioteche e i centri culturali e le case editrici potranno abbonarsi a questa finestra sull’Asia), Martin Alexander a una mia sollecitazione perché in qualche modo ALR sia bilingue (e intendo inglese + cinese) risponde: ho chiesto i soldi al Confucio (e ci domandiamo tutti cosa chiederà il Confucio in cambio).

Mridula Chakraborty, indiana che insegna in Australia, raccoglieva con entusiasmo il termine “bolla letteraria indiana in lingua inglese”. Ricordava che in India la scelta degli intellettuali di relazionarsi in inglese li ha tagliati fuori dalla gran parte della popolazione, che legge giornali in hindi o nelle 22 lingue locali, che leggeva molto di più fino a quindici anni fa quando la narrativa pop nelle lingue locali (fantascienza, dei e fantasmi, amore sparso ai quattro palmenti e naturalmente spy story, crime, thriller, noir insomma tutto ciò in cui prima o poi compare una pistola) era venduta sui banchetti di ogni mercato rionale, o sui marciapiedi, stampata su carta da quattro soldi e piena di refusi, e ora scompare perché ogni scrittore prova sè stesso in lingua inglese, chissà che ne venga fuori una pubblicazione all’estero. (Per inciso: le elezioni recenti le ha vinte il BJP, destra populista e fondamentalista indù, che con le persone parla una lingua semplice, e sopratutto non parla nè scrive in inglese!)

E poi se la rideva: per come va l’editoria in occidente, forse meglio scrivere in cinese, visto che lì crescono invece di contrarsi (io ho voluto ricordare: quando un editore cinese pensa che un libro sarà un flop, ne tira ‘solo’ 10.000 copie!).

E Deepika Mukerjee, indiana Tamil che vive a Chicago ma con una vasta esperienza di Malesia, magnificava il lavoro di Amir Muhammad che con la sua Fixi l’ha inventata lì, una letteratura pop piena di zombie, androidi, assassini seriali e prostitute redente, e sta facendo un sacco di soldi e improvvisamente i giovani leggono! Altro che a lamentarsi che le nuove generazioni sono attacate allo smartphone.

(Una notarella mia, peraltro: in quei quattro giorni ho visto gente che parlava e gente che ascoltava, e poi gente che si incontrava ai coffee break o per pranzo, e lo smartphone lo ho visto tirar fuori poco: alla faccia delle dirette twitter).

Poi giustamente Shelly Bryant, poetessa di Singapore trapiantata a Shanghai, traduttrice di cinese in lingua inglese, ricordava quanto sia necessario rendere i cinesi accessibili all’editoria internazionale (e l’Inglese è l’unico possibile mezzo a disposizione), e come sia necessario il contrario: che i lettori cinesi abbiano a disposizione buone traduzioni in mandarino della nostra produzione letteraria, classica e contemporanea. Insomma che sì, un medium linguistico ci vuole, una lingua franca, e che la lingua franca, qui in Asia e Pacifico, non sappiamo quale sarà, se l’inglese o il cinese, ma che è compito del traduttore, e dell’editore, scegliere il romanzo buono, e non quello per il quale un British Institute o un Confucius Institute è disposto a sganciar soldini.

Finisce tra gli applausi.

Esco dalla magnificente Chamber della Arts House, che altro non è se non la sala dove si tenevano le riunioni del parlamento di Singapore fino a una trentina di anni fa, e vengo letteralmente abbracciato da un donnone energico e entusiata. Si chiama Melody Kemp, scrive di diritti del lavoro in Asia, di ambiente e di sistemi di sanità pubblica. Non so nemmeno se sia australiana, americana, inglese: ha un biglietto da visita con due numeri di telefono, uno in Indonesia e uno in Laos. Dice che la metà nord del Laos è letteralmente sommersa da un’invasione culturale cinese, che il mandarino è insegnato fin dalle elementari, che I programmi tv cinesi sono i più seguiti, che è pieno di traduzioni di classici cinesi, diponibili a basso prezzo. Dice di avere una bellissima casa a Vientiane con molte stanze, dove invita gruppi di scrittori ogni due mesi a chiacchierare per giorni (e bere vino) sulla sua veranda affacciata sul Mekong. Mi scriverà, mi inviterà.

E tutto questo, rigorosamente, pronunciato in lingua inglese. Hai voglia costruir ponti.

 


Categoria: Singapore



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