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Li Er: narrazioni interne, esterne, mass media, individui e molte telecamere

Incontriamo uno scrittore di cinquant’anni, e domandiamogli cosa pensa della narrativa contemporanea cinese, quella più giovane. Lui ci racconta cosa pensa della contemporaneità, e io ci casco dentro, nella contemporaneità (o nella sincronicità?)

 

Mi viene voglia di sentire la campana dei meno giovani: come va la letteratura contemporanea in Cina? E calza a pennello l’incontro con uno scrittore che spesso si è proposto anche come critico letterario, come teorico.

Li Er è un cinquantenne, direttore del dipartimento di ricerca presso il Museo della Letteratura Moderna. Lo avevo visto in fotografia, e ne avevo ricavato un’immagine molto dottorale, tanto più che un paio di suoi interventi online, o di articoli su di lui (anche il Guardian), lo presentano come un docente che cerca di calare nello stagno della letteratura cinese contemporanea categorie europee, citando a piene mani Benjiamin, Bachtin, Auerbach.

Le sue argomentazioni son tutt’altro che peregrine: affronta la tematica della perdita di peso dell’individuo in sé (dice: viviamo spesso fuori dal nostro corpo), dovuta alla sovrabbondanza delle immagini che i mass media danno dell’individuo stesso, che nella realtà cinese non è tema da poco, visto che alla televisione, al cinema e alla pubblicità si aggiunge la sovrabbondanza della propaganda di stato: qui la parola omologazione ha una sua cifra particolare.

Lo scrittore, a suo avviso, deve tornare a focalizzarsi sull’individuo, far piazza pulita delle narrazioni cliché. Mi sembra un filino in ritardo, però. È come se non avesse attualizzato la sua posizione con l’avvento di internet e dei social network (che qui è soprattutto weibo, un twitter sotto stretto controllo di stato). Selfie, mica selfie, tutte quelle cose lì.

Intanto però, le immagini hanno il sopravento sul nostro incontro. Perché io ho fatto quel che sono riuscito a evitare di fare per decenni: scendo dal taxi e lascio il mio vecchio Ipad sul sedile posteriore. Sono qui con un interprete, che mi aiuta a capire come posso risolvere il problema: il soldato all’ingresso del Museo dice che ci sono le telecamere, che possiamo provare a prendere il numero di targa del taxi.

Li Er – tutt’altro che dottorale, un ometto piccolino e tutto pepe, simpatico , alla mano (quante volte l’ho detto dei cinesi?) – si scatena e mi porta diretto nella sala di controllo. Ci saranno almeno una ventina di video diversi, sugli schermi dei quali si affiancano più immagini. Il Museo è sotto lo sguardo del grande fratello, cerchiamo la telecamera che, dall’alto e dall’interno, inquadra il cancello da cui sono entrato io. Ho memorizzato sul cellulare (non ho la smartphone, sono ancorato a un Siemens comprato usato a Shanghai che avrà quindici anni) l’orario di arrivo, perché scendendo ho chiamato l’interprete che mi aspettava davanti a un altro cancello, cerchiamo il minuto giusto. Siamo in sei o sette in questa sala di controllo da film – a guardare altri film – arrivano tecnici chiamati alla bisogna. Ecco il muso del taxi comparire dentro alla luce del cancello, la fiancata è oscurata dal muro e non si riconosce il logo della compagnia. Il taxi è orizzontale e non si vede la targa.

Ed ecco me. Io, l’individuo, di bianco vestito per l’incontro importante, con la mia macchia di capelli bianchi, il Siemens in mano, sto parlando all’interprete. Il taxi si muove, finalmente, svolta leggero a sinistra per immettersi nel viale principale, ma sarà neanche a venti, trenta gradi di angolazione e la targa non si vede (diciamolo chiaro: il video è talmente sgranato che non capisco come si possa pensare di vedere qualcosa). E’ arrivato il capo tecnico, taglia e ingrandisce la porzione che ci interessa. Non si vede nulla.

Ma cos’è questo? Un film di De Palma, o di Cassavetes (come si intitolavano? Non li ricordo, erano gli anni ottanta, forse), l’individuo sono io e son privato del mio Ipad, sul quale avevo scaricato dal sacro web gli interventi di Li Er. C’è tutta la mia posta elettronica sull’Ipad, e io son lì nel video, avanti e indietro, avanti e indietro, che scendo dal taxi e risalgo in retromarcia senza Ipad e impugnando un Siemens: e sono uguale io, lì, a come mi vede e percepisce Li Er in questo momento? Sono in piedi rigido come un baccalà – non lo sapevo, di essere rigido come un baccalà, ma c’è un problema tra la quinta lombare – L5 – e il sacro – l’osso sacro, S1 – che ci posso fare?

Una soluzione c’è, dicono. Un numero della polizia. Se si ha l’orario e il luogo di partenza (c’è l’ho, ho telefonato appena salito sul taxi) possono risalire al numero del taxi che ha effettuato quel percorso. La procedura è complicata però: denuncia al commissariato di zona, poi si va la Ministero degli Interni. Il Ministero degli Interni, in Cina, mi fa una paura tale che chiedo di rinunciare. L’Ipad era vecchio, ho tutto sul portatile, a casa.

E finalmente gli individui ridiventano tali. Li Er ci porta nella sua stanza (vive lì! nel museo), rovescia imbarazzato il materasso del letto a due piazze, e ci prepara un tè: sacro, questo, così come il rituale di preparazione. Ed è un tè importante, del Fujian. Li Er è proprio individuo, mi dice persino che la confezione che apre per me costerà cinquanta o sessanta euro. Miscela con cura.

Li Er sostiene opinioni che condivido, anche se per un europeo rischiano di essere datate (pre social networks, diciamo): che dovere dello scrittore è ritrovare l’individualità dei suoi personaggi, e che per far questo è utile miscelare non solo l’ottimo tè che mi ha servito, ma anche i registri di scrittura. Contaminare il romanzo con il reportage, portare il punto di vista del narratore dentro la narrazione (e mi fa l’esempio di un suo romanzo, il cui narratore cerca di ricostruire un episodio della Rivoluzione Culturale andando a cercare le fonti dirette, i testimoni, e il narratore stesso è in gioco). Dice, purtroppo (purtroppo perché io dalla Cina mi aspetto novità, non revival), che gli scrittori cinesi devono imparare dagli europei.

Mi racconta una cosa che non conoscevo: la tendenza degli scrittori contemporanei a scrivere diari, una forma che ha qualche radice nella tradizione classica, ma che è rifiorita nell’oggi (incontrai Acheng un anno fa, e mi parlò dei suoi diari, lui che romanzi non ne pubblica da decenni). Questi diari, che si pubblicano poco e vendono ancora meno, bisognerà cercarli.

E, visto che insisto a chiedergli degli scrittori più giovani, e della nuova Cina, del ceto medio nelle città, mi dice che sì, ora l’individualismo è propugnato come virtù positiva anche dal Partito, che l’omologazione collettivista si sta esaurendo, ma che ne nasce una nuova: quella del mercato, dei modelli che la pubblicità propone.

Lui non vede ancora scrittori giovani capaci di misurarsi fino in fondo con la nuova Cina (e non raccoglie la mia richiesta: che lo facciano gli anziani, allora, che siano loro a narrare la condizione giovanile). Poi ha uno scarto, e introduce un tema senza che una mia domanda lo abbia condotto in quel territorio.

Dice che lo scrittore cinese, e il suo protagonista, affrontano due dolori. Un dolore interiore che definisce ‘leggero’ (ma attenzione, sono tutte parole tradotte da un’interprete, queste), e un dolore del corpo, legato alla povertà, che definisce ‘pesante’. E mi dice una cosa che mi fa piacere, perché concordo: è raro trovare uno scrittore che sabbia combinare i due dolori. E’ come se i giovani – mi fa la solita tirata negativa sui balinghou, i nati negli anni ottanta, le star pop – non sapessero capire che c’è un nesso, tra i due dolori. Tra l’interiorità e le trasformazioni sociali, chioso io, e lui fa di sì con la testa.

Ma abbiamo perso troppo tempo, nella ricerca delle immagini del mio taxi, in quella sala controllo: e lui ora deve partire. Mi dice, dobbiamo rivederci, voglio invitarti a cena. A casa mia. Individui attorno a una tavola imbandita, certo, e niente immagini video o socialnetworks, semmai tanto liquore di riso. Ci sto.

 

 


Categoria: Cina



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