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Scritture giovanili: Sheng Keyi, leggerezza, dolori altrui, doufu, uova

Sheng Keyi, con il suo Norhtern Girls e altri sette romanzi. La predilezione di una giovane scrittrice per gli emarginati e lo sconquasso sociale.

 

Dopo tante parole e tanti pensieri sugli scrittori giovani e i loro lettori, parto in tromba. Riesco nel giro di due giorni a contattare Sheng Keyi. Di lei mi han detto di tutto: ‘una scrittura potente’ (e questa l’ho ascoltata da almeno tre scrittori diversi: powerful); ‘penalizzata da una non buona traduzione inglese’ (lo dice un altro traduttore);’ l’ultima degli scrittori nati negli ottanta, anche se appena più vecchia’ (detto come un’offesa, scrittori degli anni ottanta, cioè i bestseller, i romanzotti che valgon poco e vendon molto); e il suo contrario: ‘è la generazione che ricomincia a interessarsi della società che li circonda, ma ci sono altri meglio di lei’.

Ho letto, di Sheng Keyi, brani da Northern Girls. La traduzione non saprei, i personaggi vengono fuori chiari, e la tematica è interessante: quattro ragazze, stufe della vita al villaggio (o nella cittadina di provincia), cercano l’avventura nella nuova scintillante Shenzen, la prima città “zona economica speciale”: i grattacieli, le nuove fabbriche automatizzate, la ricchezza e la libertà di impresa: ne risulterà una delusione cocente. Però sì, sta diventando un filone troppo sfruttato: un giovane arriva in città, non ha che una borsa con sé, poche cose, dorme sotto un cavalcavia: ce la farà?

Scrivo davanti a una vetrata nel mio monolocale Pechinese. Ho scelto di vivere nella zona internazionale, che è anche uno dei nuovi quartieri ricchi della capitale, appena fuori il secondo anello ma a due passi dal centro. Vedo alla mia destra i grattacieli del Business District, a sinistra il quartiere delle ambasciate, basse, e quindi sovrastate dal verde dei pioppi di Pechino, e dietro a quello due parchi in successione. Il verde abbonda e apre lo sguardo in fondo fino alla corona delle montagne, e si intuisce la campagna dell’Hebei, lontana. Ma io la campagna l’ho vista – l’ho vissuta – una volta sola, a casa di un amico artista in una piccola Toscana cinese, a Sud. Cavalcavia non ne vedo da qui, ma gente che chiede l’elemosina per strada ce n’è sempre di più, a Pechino.

Vivo nella zona internazionale perché si può non conoscere una sola parola di cinese, ma ci si fa intendere in inglese. Però ho cominciato a prendere qualche lezione, tanto per capire come si forma questa lingua così diversa: i caratteri, i radicali, i toni che di una stessa sillaba ne fanno quattro parole diverse a seconda di come le pronunci. Un giorno la mia insegnante viene su a farmi lezione nel monolocale, moderno e informe, squadrato, si guarda intorno e mi dice: “non è il tuo stile”. Dopo la lezione parte, lei, per la campagna. Nel weekend si va a trovare la famiglia, che spesso è tornata al villaggio, perché i prezzi di Pechino sono diventati troppo alti.

Torna lunedì con una busta per me, di plastica sigillata. Sotto vuoto, vedo dei quadrati rossi sottili. Mi dice assaggiali, poi mi dici cosa ne pensi. Lo farò, rispondo. E me ne dimentico, ricevendone in cambio faccine rabbuiate sul telefonino. E’ in frigo, taglio la plastica con le forbici e assaggio il quadrato. Molto piccante, sa di carne. Roba che porterei con me durante una passeggiata in montagna (o dovessi attraversare il deserto nel Gansu a dorso di cammello). Non ne farei cibo del mio quotidiano: insomma non ci pranzo né ci faccio merenda. Ma cos’è, carne? le domando nel mio sms.

E’ doufu (io avrei scritto tofu). Insomma, soia, ma messo a cuocere a lungo dentro a una zuppa di manzo, poi seccato. Ci si mette un sacco a cucinare questa cosa.
Com’è vicina e com’è lontana, questa campagna cinese dalla quale tutti provengono, tutti vanno e vengono. E poi non è più campagna: ne ho visto sprazzi, sono grandi città informi, orrende (chi mi diceva recentemente: non c’è più bellezza in Cina?), eppure si conservano le abitudini della campagna. Da cui sempre, invariabilmente, tutti provengono: la mia era una famiglia povera, l’ho sentito dire tante volte.

Sheng Keyi, anche lei adagiata sul divano del monolocale informe, ha detto: eravamo quattro sorelle, e per mandarci a scuola la mamma doveva vendere le nostre uova. Le nostre uova: il cibo privilegiato, prodotto da galline a cui con rinuncia non si è tirato il collo: uova che avremmo voluto mangiarci noi, mi sta dicendo Sheng Keyi.

Sheng Keyi è bellissima, e fa di tutto per mostrarsi tale. Oggi indossa un vestito azzurro lungo e comodo, che le cade su un corpo che si immagina magrissimo. In molte foto la si vede persino con un velo sul capo (un foulard, come quello che portava mia nonna). Ha circondato l’ovale perfetto del suo viso di lunghi capelli neri, dai quali spunta un codino, la fronte è alta: cita, credo, personaggi di corte dei film cinesi che abbiamo visto tutti, nei palazzi dell’Imperatore e dei suoi vassalli.

Northern girls ha una sua origina autobiografica: ma non ha voglia di dilungarsi, Sheng Keyi. Forse è sorpresa, non credeva di trovarsi di fronte a tante domande. E’ vero sono troppo curioso, invadente. In Cina gli scrittori sono a volte timidi, ritrosi (i poeti, mi dicono, son gente invece sempre esuberante – uno mi ha detto: è per questo che poi i poeti sono tutti bravi a fare business!). Ma non si vergogna di dirmi che sì, anche per lei Shenzen fu una delusione, tale e quale alle quattro ragazze del romanzo (e sì che lei lavorava in una biblioteca prima, e poi presso una rivista per ragazzi, pur non avendo fatto l’università). Dice: un giorno ho incontrato una ragazza, veniva dal mio villaggio nell’Hunan. E allora ho deciso di scrivere il romanzo.
Già aveva scritto prose brevi, più per sé stessa che per il pubblico. Ma intorno ai trentanni vien voglia di diventare scrittori, le dico. Sì, mi conferma, hai bisogno di raccontare. E allora – un po’ misteriosa, ‘sta cosa – va a nascondersi, lei ragazza dello Hunan in un’anonima cittadina del nord est, nel gelo degli inverni al confine con la Siberia, dove non conosce nessuno e può concentrarsi, chiudersi in casa mentre fuori tutto ghiaccia.

Gli scrittori vogliono la solitudine, non le piacciono i poeti, così diretti, con le loro vite dissolute. E mi schiude, sul suo smartphone, i suoi dipinti recenti. Già, dipinge, e sono paesaggi rurali in uno stile molto tradizionale, a china verrebbe da dire, comunque un segno nero leggero dentro al quale spicca la macchiolina rossa di un bambino, quasi microscopico, un po’ cartoon, accompagnato dal suo cagnolino: insieme guardano, il paesello, la montagna, il fiume. Dice Sheng Keyi: il cagnolino si chiama Obama. Non mi dà spiegazioni, ne farà una mostra, in marzo, presso una galleria importante.

Leggera come una piuma, Sheng Keyi. Chiedo perché Northern Girls finisca male, il sogno delle quattro ragazze si spezza, c’è il ritorno al villaggio, ma anche di peggio. E io: ma finiscono sempre male, queste storie? Questi migranti che raccontate (e non aggiungo: anche le storie adolescenziali sono tristi, spesso, e tutti ricordano di aver letto nella loro giovinezza romanzi tristi, di aver buttato via tante lacrime, in questa Cina giovane, piena di giovani che devono crescere).

Nel mio romanzo c’è oscurità, tristezza, dice. Ma c’è anche umanità, una forma di resistenza. Le storie finiscono male perché c’è indifferenza per la questione sociale. Loro (“loro”, i governanti) non se ne occupano. Le città sono cattive e vogliono cacciare via i migranti, che sono tristi. Mi spiega che ormai si costruiscono panchine storte, in modo che il senzatetto non trovi il modo di dormirci sopra. Altro che comunismo.

Intravedo una piaga, nella quale provo a infilare il mio coltello. Non voglio farle male, vorrei sentire, da parte di questa giovane donna che scrive storie tristi e oscure, la sua, di tristezza, il suo urlo. Che non viene. Sì, ammette, c’è molta solitudine anche tra i miei coetanei. Figli unici? Non raccoglie. Non dice. Vedo che fatica come se io stessi affondando troppo i miei colpi, e allora la pianto lì, di far domande.

Lei, comunque, dice: io non sono una balinghou. Non c’entro con gli scrittori nati negli anni ottanta, tutti figli unici, tutti che scrivono blockbuster milionari, e gli adolescenti cinesi ci sguazzano, nei dolori dei giovani Werther locali. Lei, lei parla di dolori altrui, quelli della società, del mondo che “Loro” stanno costruendo per i governati. E le due cose non riescono a fondersi, i dolori degli adolescenti e i dolori della Cina. (i dolori di Sheng Keyi e i dolori della società cinese in via di progressivo strazio.

La lascio andare. E’ contenta, però. Sorride, mi da appuntamento per quando tornerà dal Sudafrica: è invitata a un festival letterario, parte domani.

Bene. Ne sarà felice, penso.

 

 


Categoria: Cina



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