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A Ubud LitFest: di democrazia, turismo letterario, Islam, caste, classi

Un festival atipico nell’isola di Bali, grandi dibattiti, un po’ di turismo, grandi nomi, un po’ di glamour. Budget risicato, ma ottimo team di festival programmer, quasi tutte donne. Indonesia sugli scudi.

 

Siamo al LitFest di Ubud, nell’interno magnifico dell’isola di Bali, lontani dalle brutte spiagge e dalla folla, in un villaggio che è diventato un cult del turismo d’élite, ma anche di una sorta di diaspora artistica indonesiana. E australiana: si sente, l’influenza di questo vicino ‘occidentale’ piantato nel Pacifico, sono le università australiane il punto di riferimento, anche in termini di sponsorship, e molti sono gli scrittori e le scrittrici australiane o neozelandesi invitate.

Pochi, meno degli altri anni, gli scrittori indonesiani purtroppo. E’ venuto a mancare lo sponsor principale e il programma si adegua a un budget strettissimo, anche se va detto che l’Indonesia che scrive e pubblica quest’anno ha preferito dirigere lo sguardo sulla concomitante Francoforte, dove sarà paese ospite tra un anno: e già ci si prepara, fondi ingenti dello stato sono mobilitati a supporto, l’occasione è importante per pubblicizzare questo paese che sta diventando il prossimo gigante della delocalizzazione: come dicono gli economisti – e i commercialisti – qui il lavoro costa meno che in Cina e che in molti paesi del sud est, mentre una discreta infrastruttura c’è in un paese di 250 milioni di abitanti le cui grandi città sono metropoli già da un pezzo.
Al riparo di una lingua propria, giovane come lingua nazionale ma capace di unificare il paese, è fiorita una produzione culturale (narrativa, cinema, arte) con le spalle larghe, favorita dall’entusiasmo seguito alla conquista della democrazia, più di un quindicennio orsono, e alla capacità di contenere entro un alveo di confronto civile, anche se aspro, la lotta contro lo strapotere delle oligarchie e di minimizzare l’impatto di pur violentissime rare esplosioni di violenza interreligiosa.

Qui si stanno traducendo in inglese (e in tedesco), decine di opere di narrativa, classica, del recente passato e contemporanea, per poterle mostrare al mondo nel 2015. Ubud quindi un po’ ignorata quest’anno, rischiava di declinarsi solo come un appuntamento da turismo letterario, con una platea in massima parte bianca, e un fiorire di travelogue, gastronomia balinese, usi e costumi e via dicendo.

Brave invece le organizzatrici, un team di donne capitanate dalla storica fondatrice del festival Janet De Neefe, a piazzare colpi importanti che hanno dato tono a questi quattro giorni.
Intano brave a rintuzzare l’affaire Naipaul: il premio Nobel a due settimane dall’apertura ha fatto i capricci, questione di cachet e di alloggio, cedere a certe insistenze avrebbe aperto un vaso di pandora da parte di autori altrettanto importanti (per esempio Amitav Gosh – altro bel colpo averlo qui, intelligente, semplice, essenziale), e il risultato è che la faccia l’ha persa lui, il grande V.S.: oggetto di motti e battute a quasi ogni incontro.
E poi brave a piazzare qualche dibattito importante: fortunate, anche, ad aprire il festival con un bel tema, il futuro della democrazia indonesiana, il giorno in cui il Jakarta Post titolava sul colpo di mano del parlamento, ancora in mano ai partiti degli oligarchi grazie a un sistema maggioritario che li favorisce, contro il neoeletto presidente Joko Widodo, detto Jokovi, un democratico vero, popolarissimo e popolano, il primo presidente eletto che non ha relazioni con la dittatura pre 1998.

E nonostante l’evidente ordine di scuderia di tenere tutto sul leggero, sullo scherzoso, ecco un panel su caste e classi a ricordarci che sì, in un paese in via di industrializzazione accelerata una classe operaia sempre più consistente c’è, e dall’altro lato gli oligarchi – e la democrazia si nutre, di questi conflitti che stanno dentro al corpo sociale, che lo mobilitano, che fan sì che in ogni caffè si parli di politica con passione e partecipazione reale, non come di uno show televisivo – e perfino che, anche se sfuma, la strutturazione in caste sopravvive nella Bali induista.
La perla è stato il dibattito sull’islam moderato e liberal, in un paese dove davvero l’Islam non ha le caratteristiche oppressive che abbiamo visto manifestarsi negli ultimi due decenni altrove. Goenawan Muhammad, poeta, giornalista, editore di uno dei più importanti settimanali prima e dopo la caduta del dittatore Suharto (e con un po’ di carcere sulle spalle), fondatore di due comunità culturali straordinarie a Jakarta, Utan Kayu e Salihara, ha spiegato come si possa essere mussulmani e liberali – e accade ai più, dentro all’intellighenzia democratica indonesiana – a una sala stregata dalla comicità di Sacha Stevenson, canadese trapiantata in Indonesia a diventare la youtubista più famosa del paese: già, qui si parlava di Islam ridendo parecchio, e nessuno si è offeso.

Alla fine questo Ubud Writers Readers Festival è risultato un miscuglio capace di rivelare molto dell’Indonesia, e molto della relazione che ancora l’Occidente (via Australia) ha con le sue ex colonie. E poi che gran posto: da venirci tutti, l’anno prossimo.

 

 


Categoria: Indonesia



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