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Scrittori italiani in Cina: show, urlate, cinesi allibiti

Tema: il lavoro. C’era Pennacchi. E sarà pure un buon libro il suo Mammut, ma perchè urlare come fossimo in tv? Figuraccia.

 

Insomma, l’altra sera a Pechino, tre scrittori italiani e quattro cinesi a confronto. Tema: letteratura e lavoro.

Un po’ farraginoso l’impianto: tutti e sette sul palco, a raccontare uno dopo l’altro come scolaretti sé stessi e i propri libri sul tema. Traduzione in consecutiva. Tra il pubblico ho visto alcuni abbandonare l’aula dopo una mezzora, l’avrei fatto anch’io al loro posto. A ben vedere, la cosa più interessante era misurare con che tipo di risposta ciascuno dei sette sceglieva di reagire alla poderosa domanda iniziale: parlaci di te, e del tuo lavoro.

E allora c’è chi ha saputo intrattenere un po’ l’uditorio con motti scherzosi, e intanto narrare la trama del suo unico romanzo tradotto in Italia (Wang Gang), chi si è sentito in dovere di narrar sé stesso e il perché del suo interesse per gli argomenti trattati nei propri libri (io), chi invece entrava nel merito del proprio tema, le morti bianche sul lavoro (Angelo Ferracuti), chi con soave delicatezza affrontava, insieme al proprio romanzo, una sofferta autobiografia centrata sull’emigrazione dal villaggio alla città (Sheng Keyi), chi invece più fortunato, giunto a Pechino a suon di buoni voti e di un’ottima carriera universitaria spiegava di aver sentito il bisogno di raccontare le difficoltà dei suoi amici d’infanzia nel seguire lo stesso percorso: di qui il suo romanzo (Xu Zechen): sui migranti.

Perché qui non si dice: il lavoro, e la fabbrica. Qui, nella fabbrica del mondo si dice: i lavoratori migranti. Se ne sottolinea la relazione effimera con un posto di lavoro che è magari uno tra i tanti, nel corso di una giovane esistenza. Chi non ce la fa, chi poi non trova un po’ di stabilità, se ne tornava al villaggio, un tempo: a coltivar patate. Ora le cose peggiorano, dentro a un contesto che pure è di crescita, di proliferazione delle possibilità: perché non si può tornare, perché al villaggio, se lo lasci, la terra non c’è più. Allora anche lo scrittore usa questo termine: migranti.

Intanto, sul palco pensavo che sarebbe forse stato utile suddividere lo stesso incontro in tre, quattro parti. Sviscerare il tema e permettere agli autori di tirar fuori le proprie, di viscere, che è poi la cosa più interessante quando si ascolta uno scrittore parlare: e i romanzieri andrebbero piuttosto letti. E poi, che fatica le traduzioni in consecutiva, per chi parla e per chi ascolta.

Ma tant’è, e grazie lo stesso all’Istituto Italiano di Cultura di Pechino che lo sforzo l’ha fatto, economico e di fatica organizzativa – e grazie dell’invito, io, tra scrittori premiati e tradotti in molte lingue, mi sentivo asceso in quelle tre ore dalla mia serie b alla serie a, e infatti ho faticato a toccar palla.

Anche perché l’Italia – l’Italia orrenda che conosco io, quella dei talk show televisivi gridati, delle pantomime a cena tra amici con quella coazione a ripetere il già visto di Ballarò, una impossibilità di comunicare se appena appena hai un pubblico (insomma basta essere in quattro che subito chi parla ritiene di avere un pubblico, e sa che lo sfogo, l’urlata, fa audience, a cena come in tv) – l’Italiaccia poi ha avuto il sopravvento l’altra sera a Pechino, e gli scrittori cinesi se li è divorati con le sue abitudini cattive.

Lo so, me l’han detto che la meno troppo, su questa cosa. Ci ho scritto perfino un post per Asia Literary Review di Hong Kong, mi ci han costruito su un panel apposta a una conferenza a Singapore, però poi la gente (asiatica) mi abbracciava, felice che io dicessi: mi interessa l’Asia perché qui avete questioni vere, grosse, da affrontare, e le sapete discutere bene, con calma, con la testa e non solo con il fegato (il livore).

Insomma, l’altra sera a Pechino c’era Pennacchi che pareva non accorgersi di un pubblico che per metà intendeva solo il cinese, lui insofferente alla necessità di traduzione (e certo che se dici ‘e che cazzo me ne frega della traduzione’ l’uditorio italiano se la ride – me la son risa anch’io – e lui si sente incoraggiato), costantemente fuori tema, quasi ossessionato dalla necessità di interrompere gli altri, mandando in tilt il traduttore. Un ego smisurato declinato sul popolano (a Berrì, mi diceva – io tenevo botta con a Pennà), e quindi qualche applauso se lo strappava.

Diceva di cose che non conosceva, com’è ovvio di chi rivendica come passpartout la passata autobiografia da persona che vive e non da persona che scrive – da operaio e non da intellettuale – scagliando il termine intellettuale a piene mani, come grosse pietre: che finivano sulla testa dei quattro autori cinesi che a me parevano esterrefatti.

Che ne sapete voi, diceva loro, della fabbrica? Del lavoro? Io ce so’ stato, voi siete intellettuali (fortunati noi, io presentato come operatore di microcredito – e bravo Berrì, te vai avanti a fare microcredito che vai bene, ma il tuo libro è ‘na sola – e Ferracuti postino, reo però di collaborare col Manifesto, giornale inviso a questa statua d’uomo che si porta il bastone e lo agita nell’aria, e il cappello anche in sala con la sciarpetta di seta firmata, icona tv catapultato in una Cina di cui nulla sa ma a cui pretende di insegnare).

Stava seduto a fianco di Sheng Keyi, piuma di ragazza nel suo abito lungo blu, che cominciava presto a voltargli le spalle con viso disgustato. Sull’altro lato Xu Zechen, compassato, gli occhi spalancati dietro agli occhiali.

Intellettuali? Ma tu Pennacchi lo sai che Xu Zechen è arrivato dal villaggio a Pechino a forza di buoni voti, e così si è conquistato una docenza, e a me ha dichiarato: ho sentito il bisogno di narrare una storia di migranti perché migranti sono tutti i miei amici d’infanzia, quelli che io, fortunato, ho incontrato per le strade di Pechino a districarsi da una vita grama – e Pennacchi je diceva: ma siate un po’ più ottimisti, voi intellettuali cinesi, no? Raccontate di questo paese che si sviluppa, che fiorisce. Interrompendo, e mandando in tilt un’altra volta il traduttore. E l’uditorio cinese.

Ma lo sa, lui, showman televisivo, che la Sheng Keyi a cui dava dell’intellettuale è venuta fuori dalla campagna profonda (“la mamma doveva vendere le nostre uova – le nostre uova! – per mandarci a scuola”). Ogni intellettuale cinese, o almeno la più parte di loro proviene da villaggi di campagne poverissime: la condizione del migrante è la sua. E lo spavento che provano e han provato loro davanti al timelapse del mondo che li circonda è lo spavento di ogni cinese, arricchito o impoverito. (E poi Pennà, qualcuno t’ha avvertito che qui c’è la censura? Che quando hai sproloquiato sul fascismo italiano Sheng Keyi ti ha risposto sulla censura e sulla repressione del dissenso in Cina rischiando il suo? Rischiando, sì).

Certo, è un peccato che il romanzo sulla fabbrica non sia venuto ancora fuori nella fabbrica del mondo, che non ci sia un Orwell o un Dickens, o più modestamente un Levi, un Volponi – ma che stai a’ddì, Berrì: Volponi era un intellettuale, che ne sa lui della fabbrica.

E allora che la traducano, i cinesi, l’opera prima di Pennacchi, l’ottimo Mammut scritto quando lui – lui – ancora era operaio e non ancora intellettuale da spettacolo: perché davvero è un buon libro quello. Ma poi non se lo invitino a un tour promozionale…

Lo avvicino, poi, a cena – Berrì, Pennà – col dovuto sussiego – serie b, serie a. Me parla, me dice. Senza un pubblico, noi due soli, ridiventa umano, torna umanoide quando due estranei siedono fianco a noi e allora: ma che stai a’ddì ‘ccazzate, l’unità sindacale l’amo fatta noi. Più tardi ci salutiamo a un semaforo, dall’altra parte della strada me grida, a Berrì, l’oriente è rosso! Alzando il bastone. Non ho bastoni io, metto le mani a coppa intorno alla bocca per farmi sentire e gli cito un titolo di giornale: a Pennà, l’oriente è grosso. Ride. Non lo sa che fu un titolo del Manifesto.

A Pennà, t’ho fregato, alla fine. (E se un cinese gli avesse detto: ma tornatene a casa tua? Immaginate la scena…)

Poi scrivo a Sheng Keyi. Le chiedo scusa per l’orrido spettacolo – era scappata a gambe levate appena chiuso l’ultimo intervento. Risponde con una faccina, il sorriso.

Però è vero – e la incontrerò – che anche nei suoi libri della fabbrica – che lei ha frequentato – si parla poco, e le chiederò perché. Quando ce ne sarà il tempo, quando avremo la tranquillità per farlo, senza pubblico, senza Pennà. Magari con Mammut pubblicato in cinese tra le mani: glielo consiglierò.

Insomma, buona serata, dopo tutto, l’altra sera a Pechino. Smosse le acque. Poi però bisogna traversarle.

E qui son più attrezzati i cinesi, che loro, di discutere ne han bisogno e lo fanno: di capire e di capirsi, han bisogno, con la censura fra le scatole a imbrigliarli. Noi invece, discutere davvero, argomentare, comunicare insomma e poi trarre qualche sintesi comune non lo si fa più da un pezzo. Me pare. Chiusi, me pare, dentro a un marchingegno orwelliano che ci siamo costruiti in piena autonomia, altro che il Potere: noi, a forza di ego e narcisismi a gogò, col nostro grande fratello e le nostre facce, tante, sui nostri libri: e ci siamo fatti audience di noi stessi.

 

 


Categoria: Cina



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