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Censura in Cina, scrittori ingessati, soldini per tutti, facciamo qualcosa?

La censura sulla produzione letteraria stirnge il suo cerchio. E contemporaneamente il Governo cinese inonda di contributi gli editori all’estero. Risultato: narrazioni addomesticate, castrate. Come dobbiamo comportarci?

 

In macchina con un amico editore, a Pechino. Sabato sera, gigantesco imbottigliamento nella zona nord ovest, ne usciamo in quaranta minuti. Più sereni, dirigiamo sul ristorante, sua moglie chiede via Wechat la situazione traffico nelle vie adiacenti, qualcuno pescato a caso nel raggio di cento metri risponde, riusciamo a evitare altri ingorghi attraversando un cortile privato.

Wechat, che qui funziona un po’ anche come facebook, rilancia ai gruppi di amici ogni storia: mi dicono di aver visto la foto, postata da A Yi, nella quale io e lui firmiamo il contratto di acquisizione diritti per un suo romanzo. A Yi era molto contento, io ancora di più, e si vede. Su Wechat qualcuno ha anche rilanciato notizie circa la famosa riunione tenuta da Xi Jinping con scrittori e intellettuali. Loro scorrono la lista dei partecipanti: ci sono critici famosi, e c’è naturalmente Mo Yan. Tutti sono un po’ preoccupati, qui, per quella riunione e per le dichiarazioni di Xi Jinping.

Nelle dichiarazioni si parla abbastanza genericamente di patriottismo e del ruolo degli intellettuali nella società. Che cosa si siano detti nella riunione non si sa con esattezza. Un giorno, in taxi con un amico scrittore, gli chiedo cosa ne sappia. E’ seduto davanti e vedo che lancia un’occhiata all’autista. Poi risponde laconico: bisogna chiedere a Mo Yan.

L’altro giorno a pranzo una scrittrice ben lontana dall’essere una dissidente – anche se ha curato una raccolta di racconti omosessuali censurata in Cina – mi raccontava che quattro case editrici indipendenti sono state chiuse d’autorità: non piaceva la linea editoriale. La situazione sta peggiorando. Suo marito, inglese d’origine – ma la famiglia vive in Cina da quattro generazioni – si lancia in un’inattesa perorazione progovernativa: dice che è in corso una guerra: contro la corruzione, e per la trasformazione della Cina da paese esportatore e fabbrica del mondo e paese sviluppato, con un suo mercato interno. In guerra, mi dice, il fine giustifica i mezzi. Gli rispondo che nella vita e nel mondo contano di più i mezzi, e i fini mi fanno spesso paura.

Stringe la censura ma anche la repressione di polizia: da un lato sono sempre più frequenti i rifiuti a rinnovare il visto a giornalisti stranieri scomodi – e gli arresti dei cinesi che lavorano con loro, o di chi ingenuamente prova a postare foto, articoli in favore di Occupy Hong Kong – dall’altro ogni tipo di scrittura anche vagamente sospetta non passa il vaglio: rejected!
Qualcuno si fa pubblicare all’estero. Taiwan è la scelta più logica per un esordiente, scrittori affermati pubblicano il romanzo su Piazza Tian’an men in inglese, con un editore australiano.
I giornali hanno dato ampio risalto alle parole di Xi Jinping, io non sono riuscito a capirne con precisione i contenuti, ma molti l’hanno paragonata a un famoso discorso che Mao Zedong tenne nel 1942, sette anni prima della presa del potere: fu prodromico a almeno quarant’anni di totale cesura culturale, la sparizione dalle librerie e dalle menti dei cinesi del proprio bagaglio letterario: quel che ha infiacchito poi le generazioni successive che, ancora, faticano a darci una grande letteratura all’altezza delle ambizioni di superpotenza mondiale che ha la Cina.

E qui sta la contraddizione di un paese che vorrebbe imporre un proprio softpower, e poi lega mani e piedi ai propri artisti, scrittori, registi. L’ho già scritto: la Cina sta disseminando il mondo di Istituti Confucio, dotandoli di una notevole potenza di fuoco in termini economici. Ma ci sono autori buoni e autori cattivi. Alla censura in negativo (il divieto di pubblicazione in patria, i problemi creati a chi prova a farsi pubblicare all’estero), si aggiunge quella in positivo, la spinta di stato a autori e opere compatibili.

Che cosa è incompatibile? Beh, ovviamente la critica diretta al regime, alle sue sfere più alte – mentre viene lasciata libertà d’espressione per quanto riguarda la corruzione spicciola, a bassi livelli, si tace ovviamente il fatto che il Partito Comunista Cinese è ormai segmentato in cordate d’affari – che nella sostanza vuol dire: attenti, il potere non si tocca. Se è lecito discutere via web le colpe riguardo a un incidente ferroviario, non altrettanto si può fare per denunciare le persecuzioni ai dissidenti: un buon esempio è Yan Lianke, che ha dovuto stamparsi in proprio un romanzo (I Quattro Libri) su un campo di concentramento per intellettuali (appunto: coloro che non stavano alle direttive del Mao Zedong del ’42). Perché qui è ormai invalsa l’idea che agli “eccessi della Rivoluzione Culturale” si possa imputare ogni tipo di persecuzione nel passato, quasi che fosse un eccezione, appunto: e per questo i romanzi sul tema sono tanti.

In compenso, è obliterata ogni possibile memoria sulla repressione dell’89 (Piazza Tian’an men) che ogni scrittore di quella generazione porta marchiata a fuoco sulla propria pelle, anche se la viveva a duemila chilometri di distanza, almeno come paura – già paura: questo significa vivere sotto una dittatura: avere paura – che qualcosa possa accadere, e che lo si debba pagare sulla propria pelle.

La censura riguarda poi alcuni temi ‘morali’, che a noi fanno sorridere, ma che chissà perché ogni regime considera fondamentali per la propria sopravvivenza: non si parli di sesso, si stendano veli sul gioco d’azzardo (qui dovunque si gioca a majang per soldi), e altre stupidaggini del genere: ma i regimi vogliono i loro sudditi ben allineati e coperti, e anche questo fa brodo.

Sulla repressione del dissenso è giusto però che raccontino i giornalisti, e gli osservatori specializzati. Così come sulla democrazia: cioè sull’assetto del potere, e sul rapporto che questo ha con il popolo di cui dovrebbe essere rappresentante. Ma il mio campo è la letteratura, e la cultura in generale. E qui il problema è differente: libertà di espressione. Libertà di esprimersi, di raccontarsi, di lasciare scorrere libere le proprie creazioni. Perché se si impedisce a qualcuno che vive l’89 di Piazza Tian’an men come “la cosa più importante della mia vita” (parole che ho ascoltato più volte, da scrittori tra i quaranta e i cinquanta) di nominarlo, è evidente che le sue narrazioni resteranno confinate entro un orizzonte delimitato: perfino la lingua ne viene castrata.

E qualunque autore che – come usa dire qui – si autocensuri, vecchio o giovane, è un autore monco. Allora noi cosa facciamo?

La domanda ha bisogno di una risposta chiara. La quantità di soldi che si sta già riversando sulla promozione della cultura cinese ‘autorizzata’, va a finire anche in molte tasche italiane: pure le mie, perché anch’io pubblicherò un autore al quale è stato concesso un grant, qui in Cina. Mentre quando pubblico un autore scomodo, nisba. E nella mia condizione ci sono molti operatori culturali, molti sinologi e traduttori rispettabilissimi, i quali però per campare devono lavorare, e il confine tra prender soldi moralmente leciti, o prestare il fianco a operazioni ambigue è labile.

L’ho già scritto, e voglio ripeterlo: la cosa è troppo delicata per essere affrontata con pistolotti moralistici. E poi in Italia siamo ormai da tempo abituati al gioco del vergognati vergognati. Nessuna vergogna, allora, ma piuttosto fare. Fare qualcosa in modo compatto, unitario. Non lasciare nessuno nel dilemma morale (posso o non posso?).
Lo ridico: penso che gli editori italiani (o europei), guidati dai più grandi, debbano prendere posizione: chiedere con trasparenza assoluta, tutti insieme e non in ordine sparso, che non sia un governo dittatoriale a decidere chi e come va pubblicato in Italia.

Siamo tutti pronti a raccontare la Cina in occidente, e a farla raccontare dai cinesi: ma vogliamo raccontarla tutta. E soprattutto, vorremmo che gli scrittori cinesi fossero liberati dai ‘lacci e lacciuoli’ che impediscono loro di diventare dei maestri.

PS. Lacci e lacciuoli: ho raccontato un editore in auto con la moglie, uno scrittore in taxi con me, una scrittrice a cena: e, se posso, non ne faccio i nomi. Il post ne risulta, per così dire, monco.

 

 


Categoria: Cina



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