In diretta dall'Asia

Expat e cinesi: mal d’Asia, performance, il vero e il verosimile

Venite nel mio atelier un pomeriggio, ma restate quando fa buio, dice l’artista e performer. Quel che si vede, e quel che non si vede in Cina.

 

Pechino, gente che arriva, gente che parte. La comunità expat, e quella italiana in particolare, che io frequento, accoglie ogni settimana un ospite che torna dopo un’assenza di mesi, o di anni, e festeggia la partenza di chi qua ci è rimasto, per anni.

Città che attrae (“arrivi e vieni immediatamente risucchiato in vortice di incontri”), che stanca, (“otto anni: era ora di tornare a casa”), che delude (“è cambiata, queste strette sui visti, e poi le generazioni più giovani, che io proprio non le capisco, non mi interessano), che conferma nel proprio innamoramento (“non tornerei mai fisso a Milano: faccio di gran lunga più vita sociale qui, e più interessante).

Mal d’Asia (si diceva mal d’Africa, tempo fa, e in fondo era la stessa cosa: in Africa circondati dal lusso expat, belle case, nugoli di servette e guardiani e giardinieri e autisti, qui beneficiati dal proprio esotismo, ricercati: interessanti noi a nostra volta per loro).

Chiacchiere con una editor locale: italiano perfetto, studiato qui e quattro anni in Italia (scambi universitari), frequentazioni ormai lontane nel tempo della Rai a Pechino, perfino una consulenza nel film di Amelio (La stella che non c’è, si chiamava? Bello, ho un vago ricordo di Castellitto alle prese con i giganteschi pezzi di una fabbrica da smontare in Italia e rimontare in una provincia cinese di rottami, sfasciumi, macchinari movimento terra e terre smosse e mai risistemate: le ho detto: forse la voglia di capire cos’era la Cina mi è venuta vedendo quel film). Ora si accontenta di portare libri italiani in Cina (tanti libri per bambini), e viceversa (tanti libri per bambini), e di qualche lavoretto pescato qua e là (incontrare insieme a me scrittori cinesi e fare da interprete).

Incontrare: ma serve a qualcosa, a qualcuno? Piace a me, l’invito a una festa cinese e expat, dopo un po’ gli expat se ne vanno, restano i cinesi, al di là del tavolo una donna, penso abbia ben più di quarant’anni ma porta le treccine, i capelli neri spruzzati di blu su un lato, un volto bambino, un sorriso indifeso. E’ un’artista, ci invita nel suo atelier, io e un giovane spagnolo che qui vende materiale medico (e affitta una casa di corte poco dietro la Citta Proibita, poi la utilizza due mesi l’anno: ma quanto guadagna?).

Yan Yinghong dice che dobbiamo presentarci a Caochangdi con la luce, ma poco prima del buio. Che non è la Caochangdi di Ai Wei Wei e delle gallerie d’arte più famose, ma ne è la periferia, quindi ancora davvero zona industriale dismessa – sprazzi di film italiani sul meridione mi balenano davanti agli occhi, ma la miseria è ben altra – in taxi io e lo spagnolo ci sentiamo ben lontani da Pechino, siamo nella Cina di Amelio e Castellitto, il taxista perde l’orientamento e finiamo in una campagna di rottami e edifici cadenti.

L’atelier di Yinghong si apre con una grande serranda di metallo, spazio vuoto e lucernari in alto: nulla di inatteso. Ma il tavolo da tè, con tutte le sue cosine è lì che ci aspetta. Dice lo spagnolo: vedi, se abitassi a Barcellona quando mai mi capiterebbe di essere invitato così, senza cerimonie, nell’atelier di un’artista – che non è certo di primo piano, ma partecipa a mostre importanti, viene invitata anche all’estero.

Lei ha una bella macchina, fuori, e parla di una bambina, mi pare, e dico mi pare perché l’inglese è stentato, ma non vive con un marito, sembrerebbe. Mi mostra le tele, poi mi inchioda al computer, dove oltre alle tele sono fotografate le performance: l’ultima a Dongguan, città considerata ‘del sesso’ per i suoi molti night club – e le sue molte fabbriche. Il governo ha deciso di chiudere queste fabbriche di marchette varie, ha creato posti di lavoro per le prostitute e ha inaugurato la faccenda con una specie di fiera d’arte (invitati una ventina di artisti, tra cui due stranieri).

A lei piace la performance: si è vestita da puttana, ha convinto dieci persone a seguirla (uno era un macellaio e aveva tra le mani una mannaia, perché tutto si è svolto nel mercato alimentare coperto in un giorno di mezza chiusura). Mette nelle mani di ciascuno un pennello, questi dipingono di nero il foglio di carta di riso che lei ha preparato dipingendolo con un inchiostro invisibile così che, verniciando di nero, vengon fuori linee e caratteri e numeri in bianco. Ciascuno di essi riproduce il talloncino colorato che le suddette prostitute (o i loro datori di lavoro, per così dire) distribuiscono, ad esempio, nelle famose strade del Bund di Shanghai, piene di turisti stranieri e cinesi. Oppure, è successo un paio di volte, infilano sotto l’uscio di casa mia. E quindi corpi in posa, abitinini, numeri di telefono, scritte bislacche, e qualche verso di protesta della stessa Yan Yinghong.

Un’altra volta, dalle parti di Shanghai, è riuscita a scatenare l’ira reale e non performata – o preformata – di un altro paio di performer, dice lei, che le sono saltati addosso: quando la performance prende la mano. Li aveva provocati apposta (sai, dice, gli artisti sono tutti un po’ matti, qualcuno era anche ubriaco). Lei si è prima difesa, sotto gli occhi delle telecamere – e le trovate su google -. A questo punto si è messa a testa in giù, gambe divaricate, la gonna rossa a coprire il volto e la parte superiore del corpo, pancia inguine e gambe coperte da un collant abbondante e non trasparente sul quale aveva dipinto l’immagine di un poliziotto, con il berretto proprio lì. Molto divertita mi mostra la foto finale: un performer francese bacia la bocca del poliziotto (sul suo ombelico). Tornerà a casa col mal d’Asia anche il francese?

Mi ha parlato invece la mia editor, di come i nuovi ricchi cinesi lo facciano per moda, di copiare gli occidentali: nel vestire, nel comprare automobili. E che si sta formando in Cina un comune sentire, popolare, o da ceto medio, contro i ricchi. Un odio verso i loro comportamenti. La parola è tuhao, che tradurrei con tamarri, cafoni. Mi dice, sì per esempio vedi i colori delle loro macchine (rosa, celeste shocking), oppure c’è una copertina per l’iphone con un colore cangiante, se lo orienti in una certa direzione il metallo si colora d’oro: lo chiamano l’oro dei tuhao. E, inaspettatamente, lo tira fuori dalla borsetta: ce l’ha anche lei, io mi rigiro tra le mani l’affare e non commento.

Non commento davanti a questa giovane donna, carina, ben vestita, che mi ha spiegato come per lei lavorare con le società italiane è difficile: c’è spesso un capo che chiede qualcosa di troppo. E lei è troppo carina. Meglio accontentarsi allora, si tiene le sue rappresentanze editoriali, i libri avanti e indietro. Dice che le interessa lavorare con me. E a questo punto io, che avrò il mal d’Asia tornando a Milano, mi preparo a chiederle qualcosa di troppo.

Racconto di finzione, come si dice. Questo personaggio editor, un po’ collage, un po’ inventato di sana pianta, è verosimile. Si compone di frasi che ho orecchiato spesso. Le faccio pronunciare un’ultima frase, allora: accade di frequente, dice il mio pupazzo, è quasi dato per scontato, che appena un uomo ha qualche soldo, dopo l’iphone e il Suv si compra l’amante. Le prende casa. Costume cinese, o insegnato in università italiane?

Yan Yinghong invece è vera, reale, perchè googlabile. Lasciamo il verosimile e torniamo al vero: e la realtà è che questa artista dal volto e dai modi bambini è un antidoto potente al tuhao. Ma isolato, racchiuso nelle fortezze (798, Caochangdi, Songzhuang, sono i nomi dei quartieri dove gli artisti si rinserrano. Ogni tanto ne vengono fuori con un atto di protesta: durante #occupyhongkong qualcuno ha fatto circolare frasi, immagini: 18 arresti. E non se ne sa nulla, dei 18).

Yinghong me ne parla, e non riesce a trovare un termine inglese: le suggerisco prison, jail, arrested: lei si limita a unire i polsi, come fossero legati dalle manette. Sembra incapace di pronunciarla, quella parola. Suo padre, anche lui artista, ha fatto quattro anni di galera nei novanta, e altri tre dal 2002 in poi: polsi ravvicinati.

Dice, con le sue treccine: vedi, nei miei quadri ci sono sempre dei poliziotti, sullo sfondo, o piccoli piccoli nell’angolino, quasi invisibili. Una presenza costante. Finché, il giorno della performance, lei se lo è disegnato lì, il poliziotto. E l’artista francese, che tornerà a casa col mal d’Asia, gli ha baciato la bocca. Dice bisogna stare attenti, è terribile: pensa quei diciotto adesso, devono passare del tempo chiusi, non possono leggere, non possono scrivere, o disegnare. Dice: è tutto tempo che perdi. Dice, la prossima volta vi invito a casa, per una cena cinese (e ci sarà un marito? O il marito è già altrove?)

Ah, già: il buio. Aveva detto, venite per le cinque, vedete le tele con la luce, poi aspettiamo il buio. Quando è l’ora, chiude le tende, spegne le luci. L’inchiostro fosforescente, sulle tele ora invisibili, riluce nel buio, mostra quello che in Cina non si può raccontare a cielo aperto.

 

 


Categoria: Cina



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