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Piccoli pugili e grandi autori (meglio questi)

A Yi: raccontare le bassezze, le cattiverie, le impossibili convivenze tra gli umani: meglio raccontarle che agirle.

Coincidenza curiosa. Mentre rifletto su ‘sto benedetto nuovo ceto medio cinese (quello che dovrebbe essere l’oggetto della mia ricerca e – magari! – della scrittura dei più giovani in Cina), esco da un ristorante dentro a un centro commerciale (fuori siam già a meno otto, a Pechino) e trovo finalmente aperto uno spazio giochi per bambini che vedo in allestimento da qualche settimana. Uno stanzone colorato, c’eran tavolini, pupazzi, disegnini dappertutto e sì, fuori c’era questo sacco da pugilato al quale davo sempre quattro colpi, passando (mi piacerebbe avere un punchingball – si dice così? – in casa, ho visto un’artista usarlo come metodo di riscaldamento dentro all’immenso ambiente dove lavora, dove la stufa a carbone serve a poco: io lo userei come metodo di rilassamento, altro che yoga).

Ieri quello spazio era in funzione. Genitori un po’ straniti osservavano questi due bambini – neanche dieci anni – con la protezione sul viso, che se la davano di santa ragione. L’allenatore, anziché spingerli a affinare la propria tecnica (che grande arte sportiva era il pugilato un tempo, quanta tecnica e pensiero, e strategia e tattica implicava, com’era interessante vederli al lavoro prima che gli anabolizzanti gonfiassero i corpi a dismisura: io adoravo i pesi mosca, e gallo, piccolini e secchi. Furbi, veloci, attenti), l’allenatore sembrava istigarli esclusivamente alla potenza, all’uso della forza: dagliele, dagliele, gridava!

E i genitori, cosa si aspettano da simile educazione al combattimento?

Io le scuole di pugilato per bambini le ho viste nelle baraccopoli di Nairobi (ci ho scritto un libro, su quei luoghi), dove qualche missionario o operatore sociale le usava, al contrario, per incanalare la rabbia e la violenza che stava dentro nei corpi e nelle menti di bambini dallo sguardo posseduto – posseduto da ricordi inconsci che vorrei poter non nominare – insomma proprio per dare una forma (e magari un futuro professionale, chissà) alle loro angosce e liberare dentro un sistema di regole condivise i fantasmi che li agitano. Lo sport come sublimazione controllata della violenza. Ma qui che violenza devono mai incanalare questi ipercoccolati bambini? Forse, i genitori pensano che debbano abituarsi alla competizione. Insomma, Yuppies 2.0 per la Cina della libera, sleale e feroce concorrenza.

Intanto comincia davvero a fare freddo, a Pechino. Cerco un posto, il Trainspotting (traduzione da un nome cinese che non conosco), nascosto dentro a un hutong dove tanti nuovi locali stanno aprendo negli ultimi anni. Lo trovo, c’è una corte con un grande schermo, alcuni bar e ristoranti ma soprattutto, nel mezzo, questa costruzione nuova, un parallelepipedo di vetro, bar ristorante: lo chiamano Culture Salon. E’ un ristorante ma un paio di volte la settimana si tira giù un telo bianco e si proiettano i film indipendenti cinesi (d’estate sul grande schermo all’aperto, quando non ci sono i mondiali di calcio beninteso). E basta essere seduti al tavolo con A Yi, autore non di massa ma noto nell’ambiente, che passano un paio di persone a salutare. Anche Eric, traduttore americano, ponte tra la letteratura cinese e l’occidente, ipercritico sulla produzione recente – scuote sempre la testa, lui – saluta qualcuno, un suo amico si ferma a mangiare con noi.

Siam qui a festeggiare: abbiamo firmato un contratto io e A Yi. A Yi che ho inseguito per anni spiegandogli che, ahimè, non con i suoi meravigliosi racconti avrei potuto presentarlo in Italia, giacché gli italiani che leggono non leggono racconti, prediligono il romanzo, a meno che l’autore non sia talmente affermato che allora sì. Ma prima bisogna affermarlo, A Yi.

Di lui mi avevano detto: è già tanto se, quando lo vedi in giro, dice più di quattro parole per salutarti. Così era stato un nostro primo incontro, un secondo, poi gli avevo chiesto di rivederlo, e ricordo la diffidenza con la quale accoglieva codesto editore (o scrittore?) dall’Italia. Con molti equivoci, e una sua memoria che nel corso di almeno quattro anni cambiava i particolari dei nostri incontri. A me piaceva raccontarlo, scrissi di lui su Doppiozero – e sul mio www.indirettadallasia.it – e continuavo a domandargli come procedeva la stesura del romanzo che, finalmente, si era deciso ad affrontare.

I suoi racconti hanno ricevuto lodi in Cina e fuori, uno è comparso su Granta – l’ha tradotto Eric – uno lo trovate su Caratteri, rivista online – io avevo bisogno del romanzo. Finché un giorno mi ha detto: sono ammalato, devo fermarmi. Non capivo bene di che malattia si trattasse – e non lo so bene neppure ora – il ricovero ci fu, l’operazione pure – un virus misterioso al polmone, la resezione di una parte di quello. Andammo a trovarlo poi a casa più volte, ne era contento. Anche perché a me piaceva la chiacchiera con lui, che solo in cinese comunica (l’inglese lo intende, un poco, ma preferisce non parlarlo), e io avevo trovato un interprete perfetta, capace di scomparire al punto che io e lui riuscivamo a dirci le cose guardandoci negli occhi, con questa voce fuori campo rapida, efficace, invisibile. Insomma, alla fine a me piaceva chiacchierare, e quasi non mi dispiaceva che mi confessasse che il romanzo non sarebbe più andato avanti: diceva, non mi piace questo libro.

Ci scambiavamo brevi mail grazie a google translator, aggiornamenti, un giorno mi aggiornò circa il fatto che il romanzo invece aveva ricominciato a piacergli, lo stava terminando.

Mi dicono, amici comuni, che sia entusiasta di avermelo venduto – non solo il romanzo, abbiamo fatto un bel pacchetto – e lo era davvero quella sera al Trainspotting, non smetteva mai di parlare (con Eric, in cinese). Poi, forse quel mezzo bicchiere di birra lo ha affaticato. Forse il pesce era piccante, è diventato prima tutto rosso, poi al contrario si è messo sulle spalle il giaccone. E’ ancora in cura, ha perfino cambiato faccia, più tonda, un po’ gonfia per qualcosa che gli han prescritto.

Racconta, A Yi, storie prese da una sua memoria di poliziotto – lo è stato per quattro anni – storie che la sua ben nota timidezza rielabora in profondità, presentandoci personaggi in eterna lotta tra di loro, cattiverie e semplicità, fortune inattese e tempestate improvvise.

Racconta, in Cina, di gente che se le da. Se le da eccome.

Lui non è un fighter – come dicon di sé Zhu Wen e Zhao Bandi, l’uomo panda con l’Alfa gialla – lui non ha cause né speranze eccessive per l’umanità che lo circonda, si limita a rivelarla. Dissero, quando fu invitato alla Fiera di Londra, e intervistato da Granta: è il Camus cinese. Io penserei più a un Chuck Palaniuk: gentile, però. Finche non comincia a scrivere.

Punchingball: di questo avrebbe bisogno la Cina, altro che il gentile Tai Chi. Parchi giochi per adulti, dove andare a sfogare le rabbie prima che tracimino dal lato sbagliato. Tanti sacchi appesi alle travi in alto.

 

 


Categoria: Cina



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