In diretta dall'Asia

Digressioni malesi attorno a un libro che non c’è / 5

Caro Brian, scrivendo di te è impossibile dimenticare le anomalie malesi. Si riaffacciano a ogni dove.

E’ questo che lui sa raccontare in Malesia Blues, sostenuto da quel grottesco come fosse la chitarra basso, e scandito dal ritmo serrato di un rullante. Complotti e fughe, una decina di personaggi di ogni razza, religione, strato sociale, compresi agente Cia, agente cinese, e terrorista mediorientale. E una giovane prostituta tailandese, che poi sarà l’amore della vita del giovane bluesman Terry Fernandez (indiano tamil dal cognome portoghese come bluesman tamil dal cognome portoghese è il suo scoppiettante autore).

Non ci vengono risparmiati inseguimenti nel traffico e incroci mancati per un pelo tra ascensori e scale del grande albergo. Né le trame del petrolio e degli Stretti di Malacca.

Davvero, questo è il teatro dell’assurdo malese, la sua geopolitica, i suoi conflitti razziali e religiosi e le inevitabili macchiette che questi costruiscono. Qui ciascuno ha un suo ruolo da impersonare, qui ciascuno rispetta il suo copione nella realtà e nel Malesia Blues di Brian, che si diverte molto a raccontarlo.

Nessuno come Brian Gomez sa portare il lettore dentro alla sua capitale bambina: così la vede lui.

“So che KL è terribile, per molti versi, ma come lo può essere un adolescente.” Nessun’altra metropoli dell’Asia provoca questo epiteto azzardato.

Un giorno ci siamo incontrati nella grande lobby dell’Hilton. Davanti alla stazione dell’Airport Express Train è l’ideale per gli stopover di poche ore a KL.

In quel convivio di manager di molti diversi colori ma tutti rigorosamente in blazer, seduti a tavoli eleganti davanti alla grande vetrata affacciata su un intrico di svincoli autostradali e ampi tratti di parco verdeggianti, lui si era presentato in calzoncini corti. La maglietta mostrava un buco evidente sul davanti. Disse: “Ho combinato un pasticcio con la sigaretta, in taxi”.

Insicurezza (paura, oserei dire) per quel che combina con la sua scrittura, con il suo lavoro di videomaker per la pubblicità. A fianco a lui Melani, bella moglie dallo sguardo tanto protettivo e rassicurante quanto preoccupato: una preoccupazione che fa involontariamente da buon carburante alla perenne sensazione di pericolo che si divora Brian dall’interno.

Melani è la sua musa, la sorella maggiore, la compagna di ogni avventura: ha un coraggio da leoncina, anche lei indiana d’origine ma di pelle più chiara, dai modi vagamente londinesi, osteggiata da una famiglia che per lei cercava una sicurezza economica e di status che Melani ha disdegnato. Si è innamorata di Brian.

Una sera dunque, blues a Kuala Lumpur. E c’è una sorta di innocenza in questi ragazzi.

Una malay indossa il velo d’ordinanza ma è fucsia, perfettamente coordinato con il colore del rossetto. Un’altra, come hanno imparato a fare in molte, lo ha acconciato in modo da formare una leggera visierina, e le code sono arrotolate intorno al collo come una sciarpina vezzosa. Appoggiato un piede alla ringhiera della balconata esterna, il gomito sul corrimano, sta telefonando: anche lei più sexy che mai.

La Sharia gattopardesca imposta a questo paese è così bislacca da provocare paradossi salutari. Le ragazze siedono ai tavolini del Doppel Cafè, a ridosso del Central Market, uno spazio che la comunità underground ha ottenuto per i suoi concerti dal vivo. La platea è ridotta all’osso, saranno una cinquantina di persone, ma di tutti i colori possibili e immaginabili. Uno dei bluesman è chiaramente meticcio, parola di buon uso un tempo, ormai fuori dalla parlata comune alle nostre longitudini, dove chi non dimostra purezza wasp è irreparabilmente definito nero. In questo stanzone – un banco bar messo su con due tavolacci, cassette di birra dentro a un frigo portatile – ci sono i cinesi, gli indiani come Brian, gli anglosassoni allampanati, e i malay.

Il meticciato qui è uno schianto: la vera postmodernità asiatica. Una festa per gli occhi: il mondo intero.  Tra i ragazzi ci sarà al massimo qualche trentenne, Brian a trentasette è un evergreen che strappa applausi e entusiasmo. Una band di sole ragazze alterna rock a brani melodici in malay. La canzone è dedicata a una femminista nota, capisco che l’omosessualità femminile qui – dentro allo stanzone – possa essere esibita.

Vedo un gruppo di cinque e c’è la malay, le cinesi, la bianca e di nuovo una faccia indistinguibile. E’ questa indistinguibile meticcia che dopo un po’ di moine si porta via la cinese più carina, che consola con un bacio l’altra sua conterranea abbandonata, terrea per la sconfitta. L’omosessualità maschile non traspare apertamente: è più pericoloso. Di nuovo ho la sensazione che nei due paesi gemelli della penisola malacca l’omosessualità sia uno dei grimaldelli della rivolta generazionale strisciante che qui attraversa la città (l’han chiamata bersih, e bersih 2.0).

E davvero la rivolta – il ribaltamento dei ruoli, dei comportamenti condivisi – è  generazionale. Il quasi quarantenne Brian mi ha parlato del bersih come di una banda di ragazzini un po’ esaltati e modaioli, del tipo: ‘si fa perché si fa, se no sei uno sfigato’. Ma questi ragazzini stanno modificando equilibri politici che parevano scolpiti nella pietra. Si sono autoconvocati via facebook, come sempre, e la loro interrazzialità costituisce il tratto rilevante, la cifra dirompente di uno sconquasso che scardina le convenzioni semplicemente perché non se ne cura. Non ci sono razze, né generi sessuali, solo individui sul libro delle facce.

Brian mi ha spiegato: “I ragazzi, a KL, non ci credono alle contrapposizioni etniche. Sanno che il governo malay usa il fondamentalismo religioso per differenziare il proprio gruppo etnico, ottenerne i voti, e fare poi da gabinetto d’affari a una business class – in italiano sembra un neologismo aeroportuale – in maggioranza cinese e in parte tamil”.

Il gioco politico di contrapposizione tra malay e cinesi salta per aria a Kuala Lumpur, anche se nel resto del paese è davvero buio profondo: il bersih è rivolta di classe media e come altrove nel mondo questa classe media non sa, o non vuole, relazionarsi con i ceti poveri del paese. Una liberazione sessuale strisciante si muove a colpi di musica. Non solo rock nostro o pop occidentalizzante, in questa sala si canta in coro la tradizione musicale malay con entusiasmo e trasporto evidente, e le forme del blues vengono contaminate da melodie tradizionali che il pubblico accompagna in coro, con trasporto infantile: sì, alcune di queste sono le ninnananne dell’infanzia, vuoi che malay, cinese, tamil o bianca.

La trasformazione di Brian, sul palco, è prodigiosa. Parte sparato, un’energia sopra ogni riga che non gli ho mai conosciuto prima, nelle chiacchiere come nelle interviste – tantomeno a contatto della sua Melani con la quale è dolcissimo. Sempre in cerca di protezione, ma anche contrito nel tentativo di lenire ogni di lei possibile lagnanza: non fa una vita facile con Brian, Melani. Stasera non c’è.

Qui lo scrittore si trasfigura in popstar, il pubblico è già nelle sue mani, lui gigioneggia, in inglese e in malay. Ascoltando il disco – la sua band si chiama The Have Nots – mai lo avrei pensato in quel modo. Al Doppel Cafè c’è il suo pubblico, la chitarra è acustica e Brian si dà con tutta l’anima, Bruce Springsteen a KL. Il contesto è particolare, e l’istrionismo su questo palco è di casa: ma è lui, Brian Gomez, quello che sa presentarci più facce di sé, tra ruggiti e smorfie ammiccanti.

 

CONTINUA


Categoria: Malesia



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