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Digressioni malesi attorno a un libro che non c’è / 7

I primi anni di Brian a KL, come giornalista, sono anni di grande divertimento: gli vedo scintillare gli occhi, mentre ne parla. E’ quello il suo paradiso perduto. “Un party a sera, mai a casa prima delle quattro del mattino, servizi stupidi, facili.” Futilità varie, personaggi di spicco e sorrisi a trentadue denti, nuovi profumi, auto sportive.

KL è un mondo separato dal resto della Malesia, capitale che in questa sua autoreferenzialità florida sa crogiolarsi. L’Islam politico affaristico non era ancora partito lancia in resta con i suoi insensati diktat: non c’era velo, in quegli anni, perlomeno nella capitale. Brian si diverte, poi alla distanza si stufa. Lascia, perciò. Ha bisogno di stimoli nuovi, va in pubblicità, ci resta un paio d’anni.

Ma gli resta addosso la voglia di scrivere. Per farlo deve dunque scappare: “Non potevo dire agli amici: non sto lavorando, scrivo. Non era credibile. Non è questione di soldi, ma di status sociale, di farmi accettare dall’ambiente.” Un problema di ruolo. Chiuso in casa un anno o più a scrivere non è un ruolo: allora dice in giro che lui parte, che vuole viaggiare. E questo, chissà come, può andar bene. Ed è, alla fine, andata bene per davvero.

Dopo la pubblicazione in proprio (“E’ stata mia moglie Melani a suggerirlo: sono andato a incontrare qualche editore, a Singapore volevano farmi un contratto: il 10% di royalties: e perché mai? Se lo stampo e lo vendo da solo prendo minimo il 40. So come si promuove un prodotto, conosco i giornalisti. L’ho portato di persona in tutte le librerie di KL, ho telefonato nelle altre città.”), la traduzione in Italia, perfino in Indonesia, i reading. Il Festival di Letteratura di Ubud, a Bali, è un invito prestigioso. Ospitano lui e Melani in una bella suite, con la piscina privata affacciata sulle risaie.

Torna a KL, per un po’ il lavoro in pubblicità è tanto, senza orari. Gli ultimi anni (la crisi è per tutti) comportano lavoro via via retribuito peggio, pagamenti dilazionati allo sfinimento. ”Mi devono tre e mi accontento di uno, pur di non perdere metà del mio tempo a rincorrerli.” È stufo. Ha bisogno di stimoli diversi. ancora. E vuole ancora scrivere: come fosse quella, la vita vera.

La sua voglia è autentica: un desiderio che ti spinge, mosso da una fantasia che non trova il suo limite: Brian ‘buca’ non un video, ma un complesso di relazioni sociali e riti e miti da middle class di Kuala Lumpur, inventando trame spionistiche o criminali che solleticano tutti i temi della strana Malesia. Per questo i suoi personaggi si moltiplicano a dismisura. E ritornano.

Malesia Blues / Devil’s Place fu così: “Ho sempre avuto in testa il personaggio di un terrorista arabo, poi è arrivato l’11 settembre, e si è detto che qualcuno degli attentatori era forse passato per la Malesia. Allora ho pensato a un detective tamil: ma quando anni dopo ho cominciato a scrivere, la storia mi è esplosa tra le mani, sono comparsi da soli il mio bluesman e la prostituta. Ogni capitolo mi si presentava una faccia nuova, e io la raccontavo. Temevo di fare confusione, poi ho visto che riuscivo a tenerli tutti insieme. Era come un gigantesco party.”

Ben giocata Brian: quante volte l’hai raccontata così ai giornali di KL?

La trama del suo secondo romanzo, il sequel che attendo, è già inchiodata. Anche quella del terzo, e c’è un’idea di fondo per un quarto. Certi personaggi del primo ritornano, figure secondarie divengono i protagonisti di una narrazione che sembra costruita proprio per esplorare il non ancora detto attorno a questi: la Malesia è tanta, ci vorrebbe una narrazione ipertestuale. Una capacità alla Dave Eggers, alla Foster Wallace: note, e note alle note, e note alle note delle note.

Brian supplisce inventando un continuum che corre in libertà dentro alla sua testa. Mette in fila brevi paragrafi ciascuno riferito a una delle sue dieci o dodici linee narrative diverse. A volte cambia la voce narrante, e ciascuno dei suoi dieci o dodici personaggi ci dà il suo racconto. Fantasia, esuberanza dello scrittore, quasi euforia. Brian, che al contrario sembra spesso sull’orlo di una depressione, trova il modo di rovesciarla battendo le dita sui tasti del computer.

Ma come trovare il tempo per lavorare ogni giorno, quattro o cinque ore ben spese? Capisco che non sia solo questione di tempo, ma di tempi. Mi domandavo come avesse fatto a dimagrire tanto e in poco tempo, ecco la risposta: frustrazione per un lavoro che lo costringe a lunghe trattative, immagino anche per la preoccupazione di non trovarlo questo lavoro.E qui KL, per i professionisti specializzati come Brian, appare clamorosamente simile alla nostra Italia della crisi. Orari che non può controllare, continui scambi di informazioni via cellulare. Me ne mostra la cronologia e dice: come faccio a scrivere se mi chiamano ogni venti minuti, e molte volte è per dirmi che di un lavoro non se ne fa nulla, o che non possono pagarmi prima di sei mesi?

Come ai tempi di Malesia Blues dovrebbe andarsene, a Lankawi o in Australia. Ma non si può più giocare il gioco del giovane viaggiatore. L’età non lo consente, le relazioni sociali, Melani. Quindi ci vuole un lavoro a orari fissi, ma part time. Brian Gomez, che come il Terry Fernandez protagonista di Malesia Blues ha passato molti dei suoi anni giovanili a suonare blues nei locali, mette in campo un suo primo progetto. Cinque sere la settimana, una band già avviata, richieste che sembrano arrivare da tutte le parti. Basta tenere i contatti con i proprietari dei locali.

 

CONTINUA


Categoria: Malesia



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