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Vite contraffatte: di ragazze, di gioventù, di speranze e delusioni. Sembra l’Italia degli anni settanta. (Prima parte)

Questo He Yi, molto simpatico, lineamenti regolari, faccino carino da sciupafamiglie, insomma direi piantato con agio in un mondo universitario fiorito di ragazze sorridenti di ogni razza e colore e lingua d’origine, mi si presenta un giorno con la ferma intenzione di piantarmi come un chiodo nella testa il suo romanzo.

Tratta di una storia d’amore, con una studentessa italiana. Pubblicami, pubblicami, sembra dire nel corso di un monologo fiume, sicuramene preparato da giorni. Non abbiamo fatto tempo a sederci, ordinare due bicchieri, che già lui parlava. Potevo solo ascoltare.

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Il tema di He Yi, la sua stentorea tesi è: noi giovani cinesi eravamo ingenui. Negli anni novanta c’era un vero e proprio boom di europei che venivano a completare il percorso di studi a Pechino, lingua e letteratura cinese, ragazze che ci facevano girare la testa, così più libere di noi, disinibite. Tutto per loro era semplice, un gioco.

Il romanzo narra una relazione che per l’insegnante cinese è storia d’amore, per la ragazza italiana “un divertimento fine a sé stesso”. Dopo pochi mesi la ragazza lo lascerà per un altro, con il sorriso della leggerezza sulle labbra. He Yi mi suggerisce una pretesa di autobiografia in tutto ciò. Mi guarda pensoso: è un problema di relazioni interculturali, un deragliamento: interessante, non credi?

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Un giorno mi porterà a vedere la sua università, a suo dire fiorita di ragazze straniere, e a me sembra di non vederne così tante, sono quasi tutte cinesi. Poi capisco: sono facce vietnamite, coreane, thailandesi, o della Mongolia e del Kazakistan, insomma l’Asia satellite dell‘imperiale Regno di Mezzo che sta divenendo leader incontrastato del continente. L’Asia viene a studiare la lingua che si prepara a sfidare l’inglese come mezzo di comunicazione globale: dice He Yi che 70 milioni di persone nel mondo la stanno studiando oggi, già introdotta come facoltativa nelle scuole americane, e ci son progetti europei in questo senso.

Ma le facce delle ragazze che, a suo dire, lo prendevano di mira a quei tempi e lo lasciavano poi solo, innamorato e abbandonato, erano quelle bianche, del nostro pezzo di mondo: per via di un esotismo reciproco.

Dubiterei del suo ruolo di vittima. Anche perché poi un amico, spettegolando, mi ha buttato li una frase su He Yi: dice che aveva sedotto la moglie di un italiano di stanza a Pechino. Ho dato il romanzo in lettura a una editor italiana che ha studiato e vissuto qui a lungo, lei mi ha detto che le sembrano balle, ricordando come loro, da studentesse, subissero l’assalto di questi giovani cinesi di allora, affamati di sesso. Ma non c’è solo da scherzare.

Solo dieci anni fa questa fame di sesso doveva essere atavica, la Cina era ancora incistata in un passato rurale – qualcosa che noi definiremmo ottocentesco – le famiglie combinavano i matrimoni ai figli, e c’era un’attitudine al sesso come fisiologia, necessità e ovvietà del corpo che si dispiega nell’adolescenza già contenendo in sé un suo predefinito esito: l’innamoramento, un matrimonio.

Poi anche qualche cornino, sì, ma da adulti, si direbbe, e roba ai margini, buona per la commedia di costume. Il romanzo di He Yi vuole invece essere realista, e qualcosa di vero ci deve essere, perché si può immaginare lo shock cinese nel compiere il balzo in avanti, da Flaubert a Elvis tè Pelvis: per noi sono cent’anni, per loro un paio di decenni.

Basta leggere Le Tre Porte del blogger balinghou Han Han per capirlo: scritto a fine novanta, e all’età di diciotto anni: l’amore, il sesso, sono dei misteri, e nessuno sa cosa c’entrino l’uno con l’altro e nessuno sa bene cosa fare. E l’amore è solo uno dei campi nei quali uno shock da trasformazione accelerata si abbatte sui cinesi stralunati.

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He Yi il simpatico, He Yi il furbetto che la rigira come gli pare è più trasparente di quel che crede. La furia che pone nel raccontare, la voglia matta di farsi pubblicare è poi trascinante, la sua abitudine alla chiacchiera con l’alieno è rodata, l’inglese gli viene facile. Quindi dopo il comizio letterario di cui io ho preso diligenti appunti, ecco che organizziamo la visita guidata del suo quartiere universitario. Sarà l’occasione, sotto i platani dei viali e i pioppi bianchi, in cui finalmente piazzerò la domanda importante, ancora inevasa, la ragione del mio incontro con lui: l’89. Il prima, il durante, e il dopo Piazza Tian’am Men.

E’ cosa seria, e seriamente va impostata: gli chiedo con cautela se sia disposto a parlarne. E’ tema di censura, e la censura qui sfiora la paura, la galera. Si usava dire: scrivete di tutto, magari criticate gli eccessi (così li definisce la liturgia ufficiale) della Rivoluzione Culturale, ma non nominate mai le tre T e una F: dove la F è la setta del Falun Gong, che di adepti evidentemente ne fa, se mette paura al regime, e le tre T sono Tibet, Taiwan, e Tian’an men. Gli spiego subito il mio problema, che non ho mai avuto da altri risposte precise. E’ disposto a farlo lui? In modo anonimo? Ci troviamo da me, senza orecchie indiscrete attorno?

He Yi è tranquillo, mi dice, non ti preoccupare. La legge è ambigua, come sempre in Cina tanto rigida quanto barocca. L’argomento è proibito in pubblico, ma in privato, cioè in un gruppo di non più di tre persone, se ne può parlare, anche in un bar, e non importa se di fianco qualcuno ti ascolta.

Il racconto che me ne farà parte da lontano, è esauriente, ben dettagliato, e poi passerà con un colpo d’ala sopra ai giorni di giugno, per concludersi come un gioco di prestigio su una raccolta di racconti dal titolo interessante: Vite Contraffatte, Fake Lives, nella sua traduzione inglese.

 

VENERDI’, L’ULTIMA PARTE DI QUESTO RACCONTO

 

 


Categoria: Cina



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