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Il limite – parte seconda

Ho già intitolato in questo modo un post di tre settimane orsono: la lingua, il cinese che io non parlo e la difficoltà evidente di entrare in contatto con i giovani scrittori di Pechino, che l’inglese di solito non lo masticano. Ne parlo con Eric Abrahamsen, di Paper Republic, undici anni a Pechino da traduttore di narrativa cinese, e promoter della stessa. Una miniera di informazioni.

In realtà non di questo discorriamo ma di una vaga insoddisfazione, che trapela anche dal suo dire, sulla narrativa recente. Non è arrivato, non ancora, il romanzo che ‘spacca’ (scusate la licenza: intendo qualche romanzo vero, un piccolo capolavoro). Eric mi cita Yan Lianke (Il Villaggio di Ding, e prima ancora Servire il Popolo, in Italia rispettivamente per Nottetempo e per Einaudi). Un autore comunque in là con gli anni  – vicino a me, e lontano dai trentacinque di Eric. Certo non uno dei giovani che hanno visto l’allentarsi dei vincoli, l’affermarsi della libertà in economia, la scomparsa di ogni tipo di protezione in una società che era tutta Welfare State e che invece ora viaggia verso un liberismo selvaggio, e che lascia i più giovani (scrittori, ma non solo gli scrittori) disorientati: ci diciamo che sì deve essere difficile passare di rottura in rottura: e intendiamo prima la guerra e 40 anni di comunismo che hanno letteralmente azzerato ogni tradizione, poi lo shock della rivoluzione culturale, e poi ancora la prorompente riapertura delle menti, delle libertà di opinione, della discussione senza freni negli anni dorati, ’86, ’87, ’88 stroncati dalla repressione seguita a Piazza Tian an Men: lì c’era una generazione che si formava su sé stessa, che improvvisamente leggeva a piene mani i classici d’occidente (non solo i russi, legali), una generazione che viene costretta a chinare la testa, a costruirsi un regime di vita in attesa, cercando di rimuovere i nomi degli amici scomparsi nel nulla, invidiando i pochi in esilio. E poi improvvisamente il mercato: come a dire: non parliamone più ragazzi, si ricomincia da zero un’altra volta.

Eric mi dice: i nomi ci sono, ma questi più giovani ci metteranno dieci anni a costruirsi un linguaggio.

Mi dicono, gli chiedo, che forse gli scrittori cinesi sono ancora chiusi verso l’esterno, che leggono poco dagli altri paesi: è così?

Lui dice di no. Dice leggono, eccome. Da tutto il mondo. Ma non entrano in relazione con gli altri pezzi della società. Come un fatto di personalità, dice: tra di loro si incontrano moltissimo, parlano, discutono, si aiutano. Non amano il pubblico, verrebbe da dire: è proprio un dato di personalità.

Io obbietto che, molto spesso, questo dato di personalità fa dello scrittore un buono scrittore: niente lustrini, niente mondanità, una buona dose di timidezza, difficoltà a mostrare i propri buchi neri (il buco nero coi denti, diceva Foster Wallace), che poi forgiano il nucleo della propria scrittura.

Altra osservazione di Eric – a me pare in contraddizione con la precedente: non si prendono il tempo per scrivere: due, tre anni per un buon romanzo. Qui cercano di finire in fretta e farsi pubblicare, come se dovessero arrivare prima degli altri. C’è una insicurezza di fondo riguardo alla professione, al proprio status. E magari si immaginano pure di camparci, scrivendo romanzi: spieghiamogli che molto raramente è così, anche in Europa, suggerisco io.

La notizia migliore comunque, è questa: qualcuno l’inglese comincia a masticarlo. La Zhang Yueran, che io ho incontrato tempo fa, ragazzina, oggi dirige una piccola rivista di racconti: in cinese, naturalmente: ma l’inglese oramai lo parla.

E allora la incontreremo, questa fantasy-writer, che mi aveva detto: non voglio raccontare la realtà, ce n’è stata troppa, di realtà, nei romanzi delle generazioni precedenti. Vediamo se con lei riesco a entrare in qualche realtà parallela.

Grazie, Eric.


Categoria: Cina


2 Comments

  1. Ciao, bello questo tuo blog.
    ti segnalo un sito e un tipo che…non so, può essere quantomeno curioso:
    http://www.east-west-dichotomy.com/
    Se lo conosci mi dici che ne pensi?

    • Andrea Berrini says:

      Non lo conosco, ma mi pare un modo interessante di affrontare la babele (multipolarismo, nel gergo geopolitico) contemporanea. Ieri Francesco Sisci, commentatore per Asia Times e Sole24Ore, mi diceva come le versioni cinesi di twitter, google ecc stanno moltiplicando i loro numeri: ergo ci saranno più utenti Weibo e Baidu che non nostri abituali americanissimi twitter Google. Che faremo? Tradurremo tutto sempre malissimo? Non ci capiremo un acca? Ci faremo la guerra per una questione di aggetivi? o peggio: di avverbi!

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