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Chu Chen Books: numeri, abbracci, e il Castello Sforzesco

Ho già raccontato di questo editore indipendente di Pechino, legato (accade a tutti gli indipendenti) a un grosso gruppo statale (Università di Chongqing) perchè solo questi hanno in mano i codici isbn. E quindi sì, mi dice, gli tocca andare spesso a Chongqing, e discutere. Il suo catalogo (tradotti in cinese tutti i poeti francesi di inizio novecento, e Sartre, e gli austriaci come Zweig, e Pirandello, Svevo, Natalia Ginzburg, oltre a un folto numero di scrittori ‘maledetti in Cina’: innanzitutto il suo gruppo di poeti e narratori da Nanchino tra cui Zhu Wen, Han Dong, Su Tong. E A Yi, il Camus cinese che non viene tradotto all’estero perchè il governo cinese nega i contributi agli editori occidentali (lo pubblicheremo noi, in Italia).

In un modo o nell’altro, lui con Chongqing riesce a negoziare, e alla fine pubblica quel che vuole. Ma i cinesi leggono Apollinaire?

Siamo a Milano, questa volta. Chu Chen, poeta, è stato invitato a Lugano a Poestate, anche perchè è il traduttore di Hermann Hesse, che vicino a Lugano ha vissuto a lungo. Chu Chen, poeta ed editore cinese, legge a Lugano i versi di un autore tedesco esule in svizzera (molto prima dell’avvento di Hitler: era pacifista convinto durante la Prima Guerra Mondiale), quindi censurato in patria per un bel decennio abbondante, che molto tempo passò in oriente e al buddhismo deve un romanzo. L’autore che noi viaggiatori giovanili verso oriente (tempi lontani, 1970, ’71) divoravamo come fosse il pane (ora mi piace assai meno, dirò…)

Eh, la poesia (è poeta anche lui): poca roba, ne tiro solo tre, quattromila copie.  L’editore italiano sobbalza. In Italia se ne tirano trecento è tanto. I romanzi? Dice Chu Chen: ne tiri diecimila copie quando hai paura che sia un flop. Versiamo un’altro bicchiere di Pinot grigio, mitico Zamò friulano, e tiriamo un respiro.

Nel mio paese, gli spiego, ai numeri che mi racconta Chu Chen posso tranquillamente togliere uno zero, e già va di lusso. E i bilanci vanno sotto i tacchi. Siamo seduti nel salotto di casa mia, riuscire a incontrarsi è stato un delirio, tra i continui cambiamenti di programma e il suo francese stentatissimo: ogni tanto ci scambiamo frasi che, palesemente, nessuno dei due capisce. Ma gli interesso.

Questo è un post rovesciato: non sono io a far visita all’autore asiatico, accade il contrario. Mi studia: allineo sul tavolo una ventina di volumi di Metropoli d’Asia, lui meticolosamente li fotografa (sullo sfondo c’è lo Zamò), e fotografa le pagine web di questo blog, con risalto a quelle a lui dedicate o agli amici di Nanchino, Zhu Wen, Han Dong, Ou Ning. Poi fotografa i miei di libri, quelli in italiano e la traduzione inglese che ne è stata fatta a Singapore. Lo osservo: me lo tradurrai in cinese? Post alla rovescia, davvero.

Sua moglie parla invece un ottimo inglese, e dopo un poco cominciamo a parlare usando le sue traduzioni. Susie Li, redattrice di una rivista di cucina di Shanghai con la quale ha prodotto documentari premiati sulle cucine regionali cinesi (crisi della carta stampata? No, loro vendono, certo i giovani sono sempre attaccati agli smartphone, ma di licenziamenti tra i giornalisti non se ne parla proprio), mi conferma che i cinesi ‘leggono poco’. Ci faccio la tara.

Perchè un conto è l’abitudine globale degli editori, degli scrittori, degli intellettuali, a lamentarsi del fatto che si legge troppo poco, un conto è parlar di numeri: loro vivono in un paese dove si possono aprire case editrici, pubblicare quel che si vuole o si ritiene utile, necessario, e pagarsi tranquillamente lo stipendio senza far debiti, nononstante il fardello dei vassallaggi pesi sui conti, come sempre in Cina.

Dice Susie: noi cinesi siamo tanti!

Sì, siete tanti, anche se poi non tutti hanno i soldi per comprere libri. Ma un tre, quattrocento milioni di persone come mercato potenziale ce li avete già e, questa la cosa più importante, crescono ogni anno. Un paradiso.

Abbiamo apparecchiato, in questa serata, formaggi italiani (gorgonzola e una burrata fresca che li fa gridare di gioia), e la mia, di moglie, ha messo insieme un risotto con l’ossobuco. Sull’Ipad ci godiamo un assaggio dei documentari di Susie, Chu Chen forse è stanco (sono in giro da quindici giorni), mia moglie si occupa di documentari, e ben presto le due donne cominciano a dialogare, ci abbandonano al nostro francese biascicato attraverso lo Zamò (quanto è meglio il baijiu cinese, bello secco, che accende le conversazioni, ma davvero penso che lui sia stanco, mi pare perfino ingrassato dall’ultima volta che l’ho visto a Pechino).

Comunque ha fotografato meticolosamente tutti i libri di Metropoli d’Asia, ed i miei (ahimè, Baldini Castoldi Dalai, il mio editore, è fallito! Non ci sono disponibilità su Amazon), e anche il sito di MdA con la parte dei diritti internazionali che possiamo rivendere. Chissà che non possa trovarmi anch’io, a vender libri in Cina piuttosto che in Italia: ce l’ha ben detto Zhu Wen: voi due dovreste fare una Metropoli d’Asia cinese.

Poi è tardi, facciamo un rapido passaggio al Castello Sforzesco, deserto in questo lunedì afoso di giugno e di triste Italia, meraviglioso, e anche piccola favola disneyana al crepuscolo, con e senza le luci accese (luci che paion cinesi: han tagliato la vite del Canadà sul muro nord ovest, sostituendola con la luce verde – e rosa! – dei fari: ci stiamo preparando all’Expo, spiego, adeguiamo il nostro paese all’estetica cinese tutta luci al neon colorate).

Scappiamo in Centrale: non hanno i biglietti (perchè? perchè non avete l’andata e ritorno per Lugano?). Sorpresa: le biglietterie chiudono, le macchinette fanno biglietti solo fino a Chiasso, prenderanno la multa in Svizzera? Quanto ci scusiamo, allora. Quanta inefficienza in questa Italietta, quanta afa a Milano. A Pechino non sarebbe mai successo: ma questo non lo dico, a loro.

Arriveranno sani e salvi, a Lugano. Ci vedremo a Pechino a Luglio. Quaranta gradi. Però efficienti, loro: bullet trains ovunque, e ne tiran diecimila copie se va male.

Con Chu Chen ci siamo salutati a lungo, sul binario. Ci siamo stretti la mano almeno tre volte, e poi mi ha regalato un paio di abbracci forti, virili, pacche rumorose sulle spalle: amicizia maschile, sacra in Cina come nell’Italia di un tempo.


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