Rem Koolhaas, Carver e Ballard a Singapore
Sono in partenza per Singapore. Bel raduno di scrittori, traduttori, editori, si chiama Bridging Cultures, e almeno centocinquanta persone discuteranno e si affanneranno attorno a tematiche (letterarie, editoriali, linguistiche) che riguardano l’Asia dell’Est e il Pacifico.
Caso vuole che Gualtiero Gualtieri sul domenicale del Sole24ore della settimana scorsa recensisca un breve saggio di Rem Koolhaas, architetto, che la nostra Quodlibet ha tradotto e pubblicato di recente. Recente non è il saggio (è del 1995) Singapore Songlines, e quindici anni bastano a cambiare molti scenari, in Asia (io che non ho letto il libricino, mi limito qui a citare il recensore, e la breve introduzione dello stesso Koolhaas per Quodlibet, che invece è aggiornata): leggo affermazioni che condivido entusiasticamente, accanto ad altre che sono ormai fuori luogo.
“… (Kolhaas) descrive la Disneyland piena di divieti. Eccoli: non si può fumare, non si può bere, non si può fare l’amore. Rem racconta ciò che ogni città – anche Catanzaro – diventerà nel compimento dell’ideologicamente corretto. Una Disneyland con la pena di morte. In forza di una pena più che perfetta.”
Bello, perché sì, è Disneyland il modello: non so per Catanzaro, ma di sicuro per questo grosso pezzo d’Asia. Ma la pena di morte, a Singapore, oggi è applicata in misura sicuramente minore di quanto non lo sia negli Stati Uniti o in Giappone (era diverso nel 1995). Eppure mi piace la frase successiva di Gualtieri: “In forza di una pena più che perfetta,” e non sono sicuro di che intenda, ma io qui ci vedo il purgatorio del ceto medio: l’esistenza sempre uguale, predeterminata fin dall’infanzia, che conduce dall’asilo alla pensione senza un’apparente soluzione di continuità. Un’esistenza costruita in laboratorio. Forse, come accade in Occidente, resa sopportabile dalle terapie dell’anima o dalle droghe di sintesi a disposizione di una percentuale sempre più ampia della popolazione.
Singapore è un modello che rasenta certa fantascienza americana anni sessanta.
Disneyland, dunque. Non è vero che non si può bere (Singapore è città ad alto tasso alcolico non solo nelle sere del weekend, ed è visibile, le strade sono piene di bar). Non è vero che non si può fumare (sono aumentate, come da noi, le zone con divieto assoluto, ma è normale che Kolhaas se ne lamentasse nel ‘95). E il ‘non si può far l’amore’ penso si riferisse alle frequenti retate che colpivano allora i bordelli della città stato, che oggi invece produce escort per un turismo d’élite, addensato attorno ai casinò, come ai parchi giochi per bambini e adulti bambini, e a mostre d’arte tra le più importanti al mondo, che ci fanno tappa così come i musical di Broadway.
Ma che importa, se il testo di Koolhaas è datato? Nel suo breve prologo d’oggi (è online sul sito di Quodlibet), dimostra come la capacità di centrare la questione, di prevedere il futuro e scandagliare il presente, vanno oltre i dettagli caduchi. Oggi che Singapore è una democrazia i cui elementi di dittatura sono in declino (l’opposizione, benché marginalizzata, ha preso più del 40% alle ultime elezioni), Koolhaas scrive:
“Songlines suggerisce che la città-stato è una sorta di
laboratorio semantico dove le sconcertanti questioni che caratterizzano
la nostra epoca, come la coesistenza razziale, sono state esaminate
prima che divenissero enormi impasse o crisi nel nostro continente. Gli
esperimenti svolti a Singapore vent’anni fa non sono così diversi da
quelli nell’Europa di oggi – nella semplificazione dell’educazione, nella
medicina, nelle relazioni fra etnie. Siamo meno diversi da Singapore
di quanto speravamo.
Songlines è stato il mio ultimo ritratto di una città reale esistente. È
stato a Singapore che, spossato dalle minuziosità della ricerca, ho sentito
improvvisamente che stavo iniziando ad afferrare l’essenza non
solo di quella città, ma di ogni città nuova, ed è qui che ho scritto, spinto
da un impulso febbrile, la prima stesura della Città Generica, una
versione un po’ camuffata, astratta e generalizzata di Songlines.
In una certa misura (Singapore) è divenuta un modello per l’ambiente che ci circonda:
molti dei suoi temi, attualmente, infestano il nostro cortile di casa.”
Bellissimo. Basterebbe così, ma ci aggiungo due pendant.
La prima è l’infinita discussione via mail con un amico, un poeta editor di Singapore Quarterly Literary Review (rivista letteraria online), al quale avevo inviato un breve testo. Sinteticamente dicevo: poiché la vostra città-stato ci apparecchia ambientazioni che J.G.Ballard aveva previsto in molti romanzi (SuperCannes, Cocaine Nights, Condominium, tanto per citarne alcuni), e vedendo il vostro ceto medio così simile a quello dei racconti di Carver, di Cheever, quando ci darete voi, Singaporeani al centro del mondo, il nuovo Ballard, o Carver, o Cheever? Il mio amico editor non ci stava, non capiva. Diceva, noi? Che c’entriamo noi? E perché ci vedi così? Abbiamo lasciato stare, col mio pezzo.
Il secondo pendant è una proposta al vento: che bello sarebbe, una collana nella quale architetti svegli, aperti come Koolhaas, sapessero raccontarcele, queste città asiatiche in mutazione. Forse farebbero meglio dei romanzieri.
Categoria: Singapore