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Dice che la scena rock mongola è molto attiva

Gli Hanggai, una sera, in un capannone di Pechino. A cavallo di un cavallo. Con l’auspicio che ci salti in groppa anche qualche scrittore, a un cavallo così.

 

Ecco, appunto: dice che la scena rock mongola è molto attiva. Dice anche: ma bisognerebbe andare a Ulan Bator (Mongolia esterna, cioè Mongolia vera). Gli Hanggai, che sentiamo stasera, sono invece della Mongolia interna, come il Celeste Impero ha sempre chiamato quella regione a nord, e i governanti attuali del Paese del Mezzo godono i benefici linguistici lasciati in eredità dalla Storia (e ampi giacimenti di carbone, se non erro).

Gli Hanggai sciorinano, in formazione tipo, un paio di chitarre elettriche, direi ritmica e solista, anche se di solista qui c’è soprattutto il cantante, un omone dalle plateali movenze alla John Belushi (lui lo sa, e lo cita, è evidente), una batteria, e alcuni strumenti tradizionali a corda e percussione, che però si distinguono poco.

La loro musica è una travolgente cavalcata nelle steppe mongole, a cavallo di un cavallo (ricordo un atlante di tanti anni fa, ci diceva che in Mongolia vivevano un milione di persone e due milioni cavalli, e noi si diceva: a Ulan Bator, a Ulan Bator! A cavallo!). I testi delle loro canzoni sostanzialmente questo ripetono (dice il mio compare), al punto che John Belushi, che in testa ha un casco bianco a punta che sembra un po’ quello dei ‘ghisa’ di Milano (i vigili) a un bel punto torna sul palco con un frustino, che schiocca impenitente nell’aria.

E’ musica eccezionale, davvero. Le voci provengono dalle più profonde segrete del castello, note gravi e forse a tratti raddoppiate, com’è caratteristica quasi unica del canto siberiano. Ma qui all’abilità tecnica si sovrappone un energia che mescola il rock e il senso della cavalcata in libertà, senza fine, al punto che uno se lo domanda: ma perché non ci abbiam pensato prima, che il punk rock è una cavalcata? Una cavalcata di gruppo, o un branco di cavalli bradi. Meglio, una carica del settimo cavalleria.

Qui finisce che urliamo tutti, faccio sicuramente la figura del matto, alla mia età. Il posto non è grande, il solito capannone dismesso, neanche lontanissimo dal centro (siamo sul terzo anello di questa città organizzata per anelli: sei), un bel bancone lungo del bar, le birre. L’età del pubblico, comunque, non così bassa, direi trenta quarantenni. Dice il mio compare: gli alternativi di Pechino. In alto i festoni colorati: guardo meglio e sono bandierine buddiste.

Urlo, per farmi sentire: ma gli alternativi sono buddisti? Ma no, dice, è tanto per far colore. Sono vestiti casual, come tutti gli alternativi, ma a Pechino è più facile perché come si veste la gente con pochi soldini è sempre casual (per quanto riguarda gli anziani: anche quelli coi soldini), roba che costa poco insomma. E poi si copia un po’ lo stile degli alternativi occidentali, che saranno uno su cinque, tra il pubblico, ma fanno tendenza. (Già: e invece cosa leggono, questi alternativi? Che però mi sa che son pochini, a Pechino. Qui, forse un tre, quattrocento).

La musica degli Hanggai è una gran bella sorpresa, a chi mi aveva detto, io li ho già sentiti un paio di volte, ho risposto, e perché non torni a risentirli? Sa mettere insieme un po’ di popolano, un po’ di tradizione, un po’ di rock veemente: altro che world music! E capisco che ne saranno scontenti i puristi, ma questa è una colonna sonora che racconta molto della Cina d’oggi.

Potrei tornare a sentirli, una di queste sere. Con la birra in mano a far finta di avere ancora trentanni. Potrei seguirli in tour, ne verrebbe fuori un bel pezzo, per una rivista patinata italiana: l’occasione, penso, di vederne tanta di Cina. Potrei scriverci un libro, sul tour. Potrei, potrei. Potrei saltare su un cavallo e percorrere le steppe mongole (d’estate, però), insieme a un branco di amici d’infanzia miei, portarmeli tutti a Pechino, e poi al galoppo, gridando. Ci arresterebbero abbastanza in fretta, credo.

Però, censura o non censura, paese autoritario anzichenò, vedi che qualcosa ne scappa sempre fuori. Rivoli. Energia. Piuttosto che i ragazzetti mosci dei lounge club alla moda, quelli con le Porsche rosa. Ceto medio del menga, guardia d’onore di questo potere mezzo stato mezzo privato (privato internazionale, intendo, venture capital funds da ovunque nel mondo). Ma sta producendo gli anticorpi la Cina. Anche se di arresti si continua a sentir parlare, dopo Occupy HongKong (che non è finita per niente).

E gli scrittori? Gli scrittori più giovani, ma anche trenta e quarantenni? Quando cominceranno a cavalcare (liberi e selvaggi… mamma mia)? Come faceva qualcuno, nei novanta cupi, ma squarciati a Pechino da una scena punk. Cui Jian, che oggi fa il glamour in concerto con gli Stones, quando li rilasciano dall’ospizio.

Questo è l’anno del Cavallo, zodiacalmente, in Cina. Sta declinando verso un inverno che sarà gelido, a Pechino. Sta concludendosi. E a metà febbraio il capodanno inaugurerà un’altra primavera (han ragione loro: anche sottozero, a febbraio le gemme già son spuntate sugli alberi, anche dalle nostre parti). Sarà anno della Capra. Dice che i nati nell’anno della Capra hanno un carattere affettuoso, timido e sensibile. Non so, a me da l’idea che qualcuno, qui, presto comincerà a andare al galoppo.

 

 


Categoria: Asia



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