In diretta dall'Asia

Digressioni malesi attorno a un libro che non c’è / 3

Ho incontrato Brian la prima volta a un reading, e non mi fece una grande impressione. Un ragazzone dalla pelle scura, una faccia rotonda e due occhi più grandi di lui. Forse per lo spavento di incontrare un editore europeo.

Traspare a tratti, quest’aria sgomenta. Come se lui si portasse dentro una minaccia, pronta a cacciar fuori la testa velenosa non appena si apre uno spiraglio.

Il reading a Kuala Lumpur era uno tra i tanti organizzati con regolarità da Sharon Bakar, intelligente dama di corte British style, ma aperta a tutte le culture della penisola. Soprattutto interessata, curiosa, Sharon: qualità non scontata tra i bianchi d’Asia. Nel suo blog Bibliobuli, poi virato in account facebook e ora approdato alla consueta fitta grandinata di tweet e messaggeria varia, si definisce come ‘librodipendente’. La sua chiacchiera è sempre interessante, una festa di notizie sull’editoria e le scritture del sud est, solo un po’annacquata in un mare di narrativa o saggistica anglosassone.

E’ una tematica centrale in questa parte del mondo: è la guerra delle lingue, l’inglese e le altre. Ogni festival letterario, ogni strumento di comunicazione relativo all’editoria, ai libri, subisce l’assalto della lingua inglese, e a me vengono declinati nomi sconosciuti, gallesi o di Melbourne, londinesi come di qualche sperduta contea nella Carolina del Sud. Se cito francesi come Carrere e Echenoz, o nomi quali Durremmat e Hrabal, mi si guarda storto. Lo sguardo dell’interlocutore mi dice: già dobbiamo metterci tutti questi asiatici poco noti, e tu ti allarghi a lingue di di serie B? Sharon Bakar non è così. Ringraziamo le Sharon Bakar di ogni parte del continente, appassionate lettrici e instancabili organizzatrici di eventi che mettono in circolo la nuova Asia della parola scritta molto più di qualunque social media.

Lì eravamo a Bangsar Baru, sobborgo d’alta classe a KL, villette d’architetto circondate dal verde. Una galleria d’arte con guest house annessa, dove almeno una volta al mese si riunisce un buon numero di addetti e scrittori, poeti, anche musicisti. Si legge in pubblico – l’ho fatto anch’io – ciascuno ha la sua meritata dose d’applausi, si beve vino buono. Non c’è marketing, qui, non è l’Evento. Il sapore delle tartine è autentico, ingredienti riconoscibili e chiacchiera distesa. Si divertono, passano in compagnia il sabato pomeriggio.

Quel giorno a Bangsar Baru, dunque. Brian legge una decina delle sue pagine appena pubblicate. Sono pubblicate in proprio, per la precisione. Le pagine non mi sembrano granché, un’intricata storia di servizi segreti e terroristi collusi con un sottobosco governativo malese, e di due ragazzi capitati dentro a quella storia per caso: un gioco tipo commedia degli equivoci, virato su un registro grottesco che mi respinge: mi sa di già sentito, già detto.

Uno di quei registri da pilota automatico che rischiano di imbalsamare le scritture d’Asia. Riconosco, ad esempio, nella commedia satirica uno dei percorsi obbligati della narrativa contemporanea cinese, con le sue figure di vecchietti arguti e giovanetti sfrontati sparse a piene mani. Vedo, nella commedia femminile intimista e famigliare, densa di sentimenti finalmente rivelati, di personalità che sanno sbocciare una volta liberate dalle pastoie di un matrimonio combinato, la cifra della recente bolla letteraria indiana. E’ una surproduzione di opere di narrativa in lingua inglese già pronte per essere visionate dagli editor del mondo intero, storie di impianto collaudato in occidente, ma corredate di spezie orientali e spiritualità altre buone per vivacizzare un nostro mercato editoriale in caccia ossessiva di novità da alto fatturato.

Ecco, quello di Brian Gomez non è il primo giallo o noir o spy story virato sul grottesco che mi trovo sottomano: sento invece il bisogno di una scrittura più chirurgica, di un arma letale, capace di effetti collaterali sulla pattuglia dei lettori a cui vorrei consegnare l’Asia nuova: e queste città, questa KL.

Che il libro sia autoprodotto mi insospettisce, anche se molti qui attorno ne parlano un gran bene. Sembra che l’abbiano già letto tutti, e tutto di un fiato. E’, per giunta, in lingua inglese ancora e sempre: la cosa mi dispiace.

Temevo molto in quegli anni – ne sono passati un po’ – e temo ancora adesso la mancanza di autenticità: la lingua inglese rischia di tenerti dentro al recinto della middle class, che la parla e la esibisce come simbolo di status. Mi parlavano di una narrativa in lingua malay, avevo un paio di nomi per la testa, ne avevo letto. Un tal Faisal Teherani, con un curriculum da capopopolo religioso giovanile, frequentazioni iraniane, musulmano per scelta e per intonazione letteraria. Un istituto statale stava traducendo un bel mucchietto di romanzi di tal fatta in lingua inglese: pubblicazioni pensate per essere distribuite agli editori di tutto il mondo, corredate di generosi grants di pubblicazione.

L’obbiettivo di quell’istituto era conclamato: la promozione del paese in quanto tale (di marketing industriale e finanziario si tratta, non di altro). Mi avevano fatto una proposta conveniente. Volevano una bella presentazione in una sala prestigiosa a Roma, magari con un ministro in visita.

Il gioco era inaccettabile.

Ma la Malesia, pensavo, è la Malesia: dov’è la narrativa in lingua malese? Ricordo di averne discusso quel sabato a Bangsar Baru con due ragazzi, scuri, malay, che mi avevano presentato un loro piccolo centro culturale, musica e letture, dibattiti e qualche graffitaro. Con loro ho iniziato un discorso sulle lingue. Quando ho nominato Faisal Teherani, il commento a muso duro fu: fascism.

Non sapevo più da che parte girarmi. Il romanzo di Brian Gomez non mi convinceva.

Sbagliavo: lessi il romanzo la sera, lo terminai a notte fonda. Il grottesco di Brian centra perfettamente il bersaglio.

 

CONTINUA


Categoria: Malesia



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