In diretta dall'Asia

Karachi LitFest, due mesi fa, ora su Doppiozero

I giorni che precedono il Karachi Literature Festival sono scanditi dall’attacco all’università Bacha Khan (raffiche di mitra su studenti e professori, trenta morti) non lontano da Peshawar, e da una bombetta di minor portata a Quetta doppiata proprio nei giorni del mio arrivo. Non sono mai stato così vicino a una zona di guerra, o comunque a rischio attentati. Ho visto, in altri continenti, periferie urbane terribili in guerra con sé stesse e le ho anche percorse a lungo, ma qui non so come comportarmi.

Quel che mi vedo attorno non collima però con il flusso delle informazioni. Continua su Doppiozero


Su doppiozero

Il mio ultimo post dal blog Le Parole dell’Asia, su Doppiozero.

Ragionando su quel che si discute a Milano, e quel che si discute in Asia e a Pechino (dove la censura pesta duro, e ha effetti paradossali). E a me vien da pensare che in Italia qualcosa ci manca. Forse, come dice qualcuno, il conflitto, ma quello vero. Quello che invece di farti gettar parole al vento ti porta a soppesarle, le parole. E a ascoltare chi ti sta intorno, piuttosto che a far mostra di te.

In una bella intervista a Paolo Di Stefano, per la Lettura del 23 Agosto, Pier Vincenzo Mengaldo lamenta la debolezza della letteratura italiana degli ultimi decenni. Piazza un’affermazione importante: ci vorrebbero più conflitti, per avere temi da affrontare. E poco prima, al contrario elencava temi non affrontati in modo esaustivo e coerente dal dibattito filosofico e sociale: l’immigrazione, la disoccupazione. Io aggiungerei: le nuove forme di famiglia, anche quella semplicemente etero. E la cura e la relazione con i figli, e tra generazioni. E lo sradicamento determinato da una società che costringe a sempre più frequenti cambi di ambiente di lavoro, o di lavoro stesso, e non penso solo a lavoro ad alto contenuto di conoscenze: tra gli italiani i laureati sono una minoranza. Mengaldo ha ragione.

Allora vorrei cominciare questo post come il mio precedente: torno in Italia e… continua su Doppiozero, in alto a destra


Vite contraffatte (ultima parte)

He Yi manifesta una vera e propria dipendenza per il monologo: ma ci sa fare. Almeno a parole: il risultato sulla pagina non è all’altezza, ahimè. L’uomo affabula, tiene desta la mia attenzione con frequenti cambi di registro e flashback/flashforward, e ottiene il risultato di giustapporre utilmente momenti distanti tra di loro ma tra di loro connessi.

La seconda metà degli anni ottanta: è il periodo più libero che la Cina abbia mai sperimentato – mi dice – fino al recente avvento della rete, un’onda tale che neppure i supercomputer del governo, con i loro tag detectors e la cancellazione automatica dei messaggi sgraditi, riesce a arrestare.

In quegli anni ’80 si rovescia sulla Cina un’ondata di traduzioni dall’estero, dall’Europa soprattutto: narrativa, saggistica, filosofia, politica. Si traduce gratis perché agli editori cinesi non viene neanche in mente di comprare i diritti. Sono duecento anni d’Europa  riversati d’un botto sulla generazione più giovane: la sua, quella degli universitari d’allora.

Anche He Yi, a Nanchino alla facoltà di lettere, incrocia la redazione di Tamen: la rivista di Zhu Wen e Han Dong. Comincia a collaborare. Di sola poesia si tratta, qualche raro racconto breve: ma non c’è più una linea di demarcazione netta con la censura ora. Si sta sul filo del rasoio e si pubblica tutto. Soprattutto si parla, si discute. In camerata la luce chiude centralmente alle 11. Loro attivano una derivazione: la rubano, l’elettricità! Me lo dice, He Yi, come fosse un reato gravissimo: il vulnus, la rottura del vincolo di lealtà con il Popolo sovrano. Eccitato, solo al ricordo della trasgressione, dell’atto di libertà. Ma ci tiene a precisare: non c’era disvalore, in quell’atto. Loro restavano fondamentalmente degli idealisti. E parlavano, e discutevano. Perché questo idealismo, dice He Yi, veniva da lontano: gli era stato inculcato fin da bambini. Il post continua qui »


Vite contraffatte: di ragazze, di gioventù, di speranze e delusioni. Sembra l’Italia degli anni settanta. (Prima parte)

Questo He Yi, molto simpatico, lineamenti regolari, faccino carino da sciupafamiglie, insomma direi piantato con agio in un mondo universitario fiorito di ragazze sorridenti di ogni razza e colore e lingua d’origine, mi si presenta un giorno con la ferma intenzione di piantarmi come un chiodo nella testa il suo romanzo.

Tratta di una storia d’amore, con una studentessa italiana. Pubblicami, pubblicami, sembra dire nel corso di un monologo fiume, sicuramene preparato da giorni. Non abbiamo fatto tempo a sederci, ordinare due bicchieri, che già lui parlava. Potevo solo ascoltare.

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Il tema di He Yi, la sua stentorea tesi è: noi giovani cinesi eravamo ingenui. Negli anni novanta c’era un vero e proprio boom di europei che venivano a completare il percorso di studi a Pechino, lingua e letteratura cinese, ragazze che ci facevano girare la testa, così più libere di noi, disinibite. Tutto per loro era semplice, un gioco.

Il romanzo narra una relazione che per l’insegnante cinese è storia d’amore, per la ragazza italiana “un divertimento fine a sé stesso”. Dopo pochi mesi la ragazza lo lascerà per un altro, con il sorriso della leggerezza sulle labbra. He Yi mi suggerisce una pretesa di autobiografia in tutto ciò. Mi guarda pensoso: è un problema di relazioni interculturali, un deragliamento: interessante, non credi?

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Digressioni malesi attorno a un libro che non c’è / 8

Dunque gli Have-Nots. Allora siamo un sabato sera al ChillOut, un grosso bar all’aperto sulla terrazza di uno shopping mall. Subang Parade, che fa da centro di gravità per Petaling Jaya, il sobborgo residenziale da classe media a un bel venti chilometri dal centro di Kuala Lumpur.

KL, come molte di queste metropoli nuove di zecca – o rinnovate dal vetro, dall’acciaio e dal cemento armato – si estende su perimetri inimmaginabili: ma qui davvero si sfiorano le utopie urbanistiche di un secolo fa, Francis Lloyd Wirght, per non parlare della famigerata Chandigarh di Le Corbusier, in India, che al contrario vista ora appare il simbolo di una intelligenza e pianificazione incapace di prevedere una presenza umana, inadatta a confrontarsi con la vulnerabilità, la volubilità, la casualità e la molteplicità delle relazioni tra le persone, che invece si pretendevano ingabbiate dentro a viali di scorrimento perfetti e spazi di cui si predeterminava la personalità: il contrario del modo in cui poi la casualità dello sviluppo economico ed edilizio prorompente – l’anarchia più che un progetto, una pianificazione – costruisce una serialità casa/ufficio/centro commerciale che è la cifra della metropoli asiatica contemporanea. Città dalla personalità e dall’anima predeterminate: e non da un Centro Orwelliano, ma da un complesso di relazioni umane alienate. Non possiamo stupirci se l’anima di queste metropoli è artificialmente costruita dalle narrazioni dei copy della pubblicità. Giusto Brian?

Al ChillOut, dunque. Bassista cinese, seconda voce e chitarra solista malay, batterista bianco, il nostro leader è di origine indiana. Suonano evergreen del pop anni settanta occidentale per scaldare il pubblico. E poi un sacco di roba sua, composta da lui, Brian Gomez. Riarrangiata e rivissuta da lui, a metà strada tra il rock, il blues e le sonorità del pop malay. “Veeery interesting,” mi aveva preannunciato.

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Digressioni malesi attorno a un libro che non c’è / 7

I primi anni di Brian a KL, come giornalista, sono anni di grande divertimento: gli vedo scintillare gli occhi, mentre ne parla. E’ quello il suo paradiso perduto. “Un party a sera, mai a casa prima delle quattro del mattino, servizi stupidi, facili.” Futilità varie, personaggi di spicco e sorrisi a trentadue denti, nuovi profumi, auto sportive.

KL è un mondo separato dal resto della Malesia, capitale che in questa sua autoreferenzialità florida sa crogiolarsi. L’Islam politico affaristico non era ancora partito lancia in resta con i suoi insensati diktat: non c’era velo, in quegli anni, perlomeno nella capitale. Brian si diverte, poi alla distanza si stufa. Lascia, perciò. Ha bisogno di stimoli nuovi, va in pubblicità, ci resta un paio d’anni.

Ma gli resta addosso la voglia di scrivere. Per farlo deve dunque scappare: “Non potevo dire agli amici: non sto lavorando, scrivo. Non era credibile. Non è questione di soldi, ma di status sociale, di farmi accettare dall’ambiente.” Un problema di ruolo. Chiuso in casa un anno o più a scrivere non è un ruolo: allora dice in giro che lui parte, che vuole viaggiare. E questo, chissà come, può andar bene. Ed è, alla fine, andata bene per davvero.

Dopo la pubblicazione in proprio (“E’ stata mia moglie Melani a suggerirlo: sono andato a incontrare qualche editore, a Singapore volevano farmi un contratto: il 10% di royalties: e perché mai? Se lo stampo e lo vendo da solo prendo minimo il 40. So come si promuove un prodotto, conosco i giornalisti. L’ho portato di persona in tutte le librerie di KL, ho telefonato nelle altre città.”), la traduzione in Italia, perfino in Indonesia, i reading. Il Festival di Letteratura di Ubud, a Bali, è un invito prestigioso. Ospitano lui e Melani in una bella suite, con la piscina privata affacciata sulle risaie.

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Digressioni malesi attorno a un libro che non c’è / 6

Negli anni Brian si è anche trasformato nel corpo. Lo avevo conosciuto come un ragazzo piuttosto grosso: è alto, mi pareva il fisico del ruolo da bluesman al bar, con tanta birra in corpo e la tela di jeans dappertutto. Adesso, forse tre anni dopo il nostro primo incontro, è magro, asciutto, quasi bello con un paio di baffi appena accennati. Baffi tamil, India del sud, questi sì, laggiù simbolo irrinunciabile di mascolinità. In ogni caso ora è un uomo. Quando chiedo come abbia fatto, quali gli ingredienti della dieta miracolosa, mi risponde che non lo sa. I casi sono due: o la tensione di una sua vita indefinita lo mangia vivo, oppure ha semplicemente smesso di bere. In questi due giorni con me non ha toccato neanche un goccio di birra.

La tensione. Ragazzo di trentasette anni con l’energia di un Bruce Springsteen e un’istrionicità da animale da palco, e poi, invece, giù dal palco l’altro Brian, molto misurato con chi lo saluta qua al Doppel Cafè, quasi ombroso. Con me, ancora di più. Per il secondo libro gli ho voluto versare un anticipo, e questo lo mette in ansia. Non faccio che ripetergli: prenditi il tuo tempo, non ho fretta che tu consegni il Malesia Blues parte seconda. Per lui la scrittura è istinto, come il blues- Non è un fine letterato, ma l’immaginazione, l’inventiva, la fantasia esuberante che mette nei suoi giochi grotteschi, e la verità semplice che sa raccontare sulla Malesia interetnica dei cento poteri va incoraggiata. Che si conceda tempo, non può timbrare il cartellino.

Il libro – Devil’s Place in inglese –  ne ha fatto un piccolo idolo pop a KL. Giusta la scelta di pubblicarsi da solo, senza intermediari. Ha venduto molto e guadagnato sei volte di più che se avesse pubblicato con un editore. Ora, Brian è in cerca di una posizione comoda dove sedersi a scirvere il secondo libro. Un lavoro sicuro, magari non pagato granchè. Che basti a metter giù la rata del mutuo, poi Melani farà la spesa con il suo stipendio da giornalista radiofonica.

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Digressioni malesi attorno a un libro che non c’è / 5

Caro Brian, scrivendo di te è impossibile dimenticare le anomalie malesi. Si riaffacciano a ogni dove.

E’ questo che lui sa raccontare in Malesia Blues, sostenuto da quel grottesco come fosse la chitarra basso, e scandito dal ritmo serrato di un rullante. Complotti e fughe, una decina di personaggi di ogni razza, religione, strato sociale, compresi agente Cia, agente cinese, e terrorista mediorientale. E una giovane prostituta tailandese, che poi sarà l’amore della vita del giovane bluesman Terry Fernandez (indiano tamil dal cognome portoghese come bluesman tamil dal cognome portoghese è il suo scoppiettante autore).

Non ci vengono risparmiati inseguimenti nel traffico e incroci mancati per un pelo tra ascensori e scale del grande albergo. Né le trame del petrolio e degli Stretti di Malacca.

Davvero, questo è il teatro dell’assurdo malese, la sua geopolitica, i suoi conflitti razziali e religiosi e le inevitabili macchiette che questi costruiscono. Qui ciascuno ha un suo ruolo da impersonare, qui ciascuno rispetta il suo copione nella realtà e nel Malesia Blues di Brian, che si diverte molto a raccontarlo.

Nessuno come Brian Gomez sa portare il lettore dentro alla sua capitale bambina: così la vede lui.

“So che KL è terribile, per molti versi, ma come lo può essere un adolescente.” Nessun’altra metropoli dell’Asia provoca questo epiteto azzardato.

Un giorno ci siamo incontrati nella grande lobby dell’Hilton. Davanti alla stazione dell’Airport Express Train è l’ideale per gli stopover di poche ore a KL.

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Digressioni malesi attorno a un libro che non c’è / 4

Strana Malesia. Una fiera intitolata Sexsualiti merdeka, i reading in lingua inglese. Una letteratura malay ambigua, ma da esplorare. E questo l’ho fatto.

Ho incontrato Faisal Teherani. Con una posa da chierichetto mi aveva offerto la sua erudizione, la sua visione filosofica. Infilò il suo dio da tutte le parti, in qualsiasi possibile anfratto del discorso.

Pensavo fosse un vezzo, davanti all’editore europeo. Poi mi ero letto parte dei suoi romanzi tradotti in inglese: sempre dio mai dimenticato, nominato almeno una volta a pagina, quasi fosse l’io narcisistico di un cattivo showman italiano alle prese con la propria autobiografia. Il driver, si direbbe in inglese, del racconto cattivo, quello che fa male agli eserciti dei lettori.

Non c’è solo Faisal Teherani. Incontrai un degnissimo Samad Said dalla lunga e sottile barba bianca – come l’Albus Silente di Harry Potter, mi ha disse lui, aggiungendo: li ho letti tutti, mi piace moltissimo.

Mi spiegò la necessità dello scrittore malay: fare un suo slalom tra le pieghe della censura. E poi lessi i suoi romanzi, e c’era molto di più che in Faisal Teherani, scrittura, poesia. Ma sempre questo dio onnipresente, ingombrante, che non la smette di tirar per la giacchetta il lettore.

A Singapore, davanti a una tazza di tè, ho incontrato un giorno Isa Kamari. Scrittore di lingua malese e, dovrei aggiungere, di razza malese, di cultura malese, e musulmano come molti malesi, almeno quelli di una certa età. Dei suoi otto romanzi, alcuni sono stati tradotti in inglese. Due di questi, curiosamente, hanno lo stesso soggetto: l’adozione di una bambina da parte di una famiglia malese e musulmana. Una bambina olandese, in Nadra. E una bambina cinese in One Earth, che il mio amico Fong Hoe Fang ha pubblicato con Ethos Books.

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